Lilou

Dopo aver rinfrescato i lieviti questa mattina ho evaso il verbale della riunione condominiale che il mio intestino aveva prodotto dopo mangiato. La colazione prevedeva infatti una bella fetta di pane di segale della Savoia che montava un rimarchevole strato di crema alla zucca e cioccolato. Ieri ho investito un’ora nella preparazione di un dessert utilizzando solamente questi due ingredienti: avrebbe dovuto solidificare grazie a un paio di bustine di agar-agar che ho inserito nel composto, ma evidentemente non sono servite a molto, poiché la pietanza, dopo la notte in frigorifero, aveva ancora la consistenza del verbale suddetto.

“Hello Luca, hello A.! Prevedono due giorni di nevicata pesante, potete venire ad aiutare a spalare stamattina? Alle 10:00 oppure aprés-midi.” Va bene C., veniamo. Tutto pur di fare qualcosa in questo periodo di lockdown. Avevo davvero voglia di mettermi al lavoro, non importava quale fosse.

Benché non avessi molta scelta su quali doposci, pantaloni termici e calze di lana mettere, per la parte superiore ho deciso per termica, maglietta di cotone, paille e spolverino. Qui l’aria è molto secca per cui i -10 del termometro sono davvero come i 2, 3 gradi della Pianura Padana, solo senza gli aghi di umidità che penetrano nelle ossa. Dovevo essere agile e leggero e volevo conservare la giacca asciutta nello zaino insieme al cambio, nel caso in cui ci fossimo fermati per mangiare o per qualsiasi motivo.

Le strade erano cunicoli scavati nella neve. Muretti alti un metro e passa trasformano le auto in Mini 4WD e i quad fanno la felicità dei loro proprietari, che disegnano parentesi nelle curve derapando ai 30 all’ora. I parcheggi e le piazzette ospitavano grossi tumuli bianchi. Aggregazioni glaciali erette dalle ruspe. Cadevano fiocchi grossi e turgidi che alzavano la misura del deposito in pochissimo tempo.

A. è arrivato al ristorante prima di me, ma il grosso era ancora da fare. G. e Lilou lavoravano già da un paio d’ore, uno alla guida del quad cingolato e l’altro dietro la succhianeve. Lasciate che vi parli di questo incredibile mezzo: la succhianeve. Non conosco il suo vero nome e non ho intenzione di andare a cercarlo, ma pensate a una motozappa, che si guida tenendo un manubrio e che grazie a un miracolo ingegneristico progredisce senza gravare sul guidatore azzannando la terra. Immaginate ora di portare la stesso macchinario che sia però sprovvisto di rostro nella parte anteriore, la quale ospita invece un grosso pignone a guida spiralizzata che ha lo scopo di convogliare la neve all’interno della macchina. Qui il potente risucchio si trasforma in ancor più potente schizzo: la neve viene infatti sparata lontano attraverso l’ugello situato alla fine di un lungo tubo ricurvo e regolabile dalla piccola cloche sulla plancia. Si tratta di uno strumento davvero utile da queste parti, perché permette di “trasferire” l’ammasso nevoso che blocca i passaggi da una situazione di in mezzo alle balle a una di poco più in là.

Lilou adoperava la succhianeve mentre G. faceva la spola con il carrello agganciato dietro il quad cingolato. Insieme potevano raccogliere la neve e spararla direttamente sul carrello per scaricarla a una cinquantina di mentri in mezzo allo spiazzo di fronte al ristorante. Io, A., C., A. e successivamente le due bariste e i loro due amici invece ci occupavamo di spalare la neve alla vecchia maniera, con pale e carriole artiche.

Dopo circa un’ora di lavoro sotto la neve battente ero completamente bagnato. Per la neve fuori e per il sudore dentro. Mi sono fermato solo dieci minuti per mangiare il tonno ma poi sono tornato a spalare per mantenermi in temperatura. La miglior resa si aveva dopo aver imparato a valutare quando era meglio usare la pala, quando invece la neve richiedeva di essere caricata sulla carriola o quando si doveva ricorrere alla pala spingi neve senza bisogno di sollevare niente, trasformandosi di fatto in piccole ruspe umane.

Lilou e G. devono aver fatto duecento giri, forse più, a caricare e scaricare neve. In tutto, in 9 persone, abbiamo svuotato il cortile del ristorante in sette ore, con pochissime pause individuali. Lentamente sentivo le braccia indolenzirsi, le gambe farsi pesanti. Avevo i vestiti completamente bagnati ma riuscivo a mantenermi in temperatura muovendomi molto. Le palpebre diventavano pesanti e in qualche momento di sosta sbadigliavo. La svolta è venuta dopo la seconda ora, quando C. ha messo la musica. L’impianto del ristorante era anche l’unico che funzionasse in quel momento in tutta la valle. Sapete com’è quando beccate una canzone che non conoscete ma spacca, che il volume è abbastanza alto da cancellare i pensieri che avete e sentite solo il cuore battere allo stesso ritmo! Lavoravamo più forte, o almeno lavoravamo pensando meno a quanta fatica e a quanto tempo ancora mancasse per finire.

Le playlist del ristorante non erano niente male e si lavorava bene a suon di pop anni ’90 e hip-hop. I ragazzi si erano dedicati al soppalco, dal quale gettavano la neve che noi trasportavamo al centro del cortile, così da permettere a Lilou e G. di continuare la loro maratona svuotatoria. Nel rovesciare la neve spesso usavo la tecnica del “rinculo”: portavo la carriola nella zona preposta e con uno scatto tiravo indietro l’attrezzo lasciando che la neve scivolasse fuori. Una frustata. Questo a volte era preferibile al lento e faticoso rovesciamento, ma comportava ulteriore stress muscolare e, spesso, la caduta del risvolto del berretto, che finiva per togliermi metà visuale. La carriola artica consente anche di grattare il fondo per raccogliere la neve, un altro lavoro che richiede pazienza ma soprattutto forti spinte e resistenza.

Ormai anche la musica poteva fare ben poco. Andavamo avanti per inerzia e persino la succhianeve richiedeva nuova benzina. C. a quel punto è sgattaiolato in regia e ha cambiato musica. A quel volume ora potevano sentirci dal centro di Tignes perché tutti cantavamo l’intro di Thunderstruck degli AC/DC. Non potevo trattenermi e cantavo anch’io. La musica copriva il motore dei mezzi e i ragazzi ballavano sul soppalco. L’aria era frizzante e carica di vibrazioni eletriche come nei grandi party che il ristorante ospitava prima del lockdown. Cos’era adesso una pala di neve? Via una, via due, via dieci, via cento! Il cortile si svuotava sempre più velocemente. Se mi avessero chiesto perché sorridevo avrei risposto che è così che immagino un luogo di lavoro, come una famiglia, dove si fa quello che serve e alla fine si finisce sempre per farlo insieme e farlo con piacere, anche se costa molta fatica.

Thunderstruck è una canzone che sembra nata per dare carica, preparare alla battaglia, incoraggiare il cuore dei temerari. E’ praticamente impossibile restare fermi sentendola. Avvertivo grande dentro di me la voglia di tornare ai concerti dei miei gruppi preferiti. L’unico che sembrava non concendersi all’estasi della musica era Lilou. Guidava la succhianeve sparando il getto bianco nel didietro del quad. Però aspetta, gli passavo di fianco ma sì, notavo qualcosa. Anche lui infatti sembrava aver subìto un flebile cambiamento posturale, qualcosa che si notava più con gli organi della percezione che non con gli occhi. Era over-concentrato nel succhiare neve e non distoglieva lo sguardo dal suo orizzonte. Sì sono sicuro! Quella musica spaventosamente energetica gli era entrata in circolo, penetrata per endovena ed ora era eccitato, galvanizzato, ma sempre composto nel suo operare. Lo shock della chitarra di Angus Young e la voce di Brian Johnson graffiavano le guance della Grande Motte nella bufera di neve che non concedeva requie e le braccia erano scosse dal tremore della succhianeve là, persi nel bianco alpino a 2100 metri di quota, eppure ballando, ridendo, spalando, piccoli e indaffarati a spostare la neve da qui a lì, bagnati come capitani di peschereggi dalla faccia blu persi nella tempesta… e Lilou. Lilou era l’occhio della tempesta.

Pubblicato da lucafraz

Sono nato atopico e ho passato molto del mio tempo grattandomi braccia e gambe, perlopiù; quindi sono "diventato" atopico: ho smesso di abitare un luogo determinato.

5 pensieri riguardo “Lilou

  1. Leggere queste tue parole oggi che fa un caldo da sciogliersi è davvero un toccasana. Thunderstruck darebbe energia anche ad un’ameba, è un pezzo stupendo! Mi ha fatta sorridere leggere di Lilou, come vengo chiamata io dai miei amici di sempre.
    Spero di leggerti ancora..
    Marilù

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