Era una sensazione nuova, stare nell’acqua. Era in tutto ritrovare un elemento, percepire leggerezza, godersi un fluido. Un’atmosfera calorosa e gentile. Frangevo la superficie con le mani, bracciata dopo bracciata, espellendo tutta l’aria dal naso e sentendomi adoperare al cento per cento. Qualche volta tiravo pure dentro dell’acqua e mi impanicavo: le volte peggiori erano nel dorso, mentre passavo vicino a qualcuno che, nuotando in direzione opposta alla mia, creava un’ondina abbastanza potente da riempirmi le narici e demolire la mia compostezza.
Non so fare la virata quindi ad ogni vasca mi fermavo per girarmi e darmi una spinta. Alla mia terza lunghezza consecutiva ho toccato la linea galleggiante della corsia; mi sono stretto verso il lato opposto ma oh! c’era subito l’altra linea della corsia. Ho alzato la testa per vedere dove sono finito e mi sono ritrovato le linee galleggianti stringere davanti a me, chiudendomi la testa in mezzo. Un’addetta lifeguard stava svitandole per creare spazio a sinistra, trasformando così la piscina in un unico grande pentolone. E lì, come tanti girini sguazzanti, una batteria temibile di anziani.
Era bello insultarli senza che capissero la mia lingua. Stava iniziando una lezione di acquagym e l’unica corsia lasciata libera per il nuoto, ovviamente, era già strabordante di merluzzi che si strusciavano ad ogni passaggio. Maledetti.
Poi la sensazione. “Mi scusi si può partecipare alla lezione?” e l’addetta lifeguard mi ha detto Sì, certo! È per tutti!, così sono sgusciato dall’altra parte. Se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro.
“Che cosa ci fai qui?” mi chiedeva la mia vicina di esercizio, “La vedi quella signora lì? Ha novantacinque anni!”. Sarà, ma pompavano di brutto e quel quell’assurdo gruppo che sembrava uscito dal cast di Cocoon era pieno di gente che si divertiva, più dei bambini nella piscina accanto. Quindi ciao! Ed è stato ganzo.
L’insegnante, Grace, amava fare quello che faceva e animava il nostro gruppo misto – che da ora in poi chiameremo Gehenna – con il ritmo e il carisma adatti a travolgere persone di quell’età: con potenza tarata, con calma esagitazione. Amava interagire con noi e con le persone che si alternavano alle sue spalle sul bordo piscina; ci faceva cambiare “Diana” nella canzone di Paul Anka con “Grace”, che non suonava affatto bene ma faceva tanto ridere, ancor più per il fatto che la Gehenna rispondeva con voci spezzate e rantoli a mezz’asta, finché non venivano incoraggiati a dovere e strizzavano quello che rimaneva delle loro ugole. E mi metteva sotto la luce dei riflettori quando saltavo fuori dall’acqua durante un esercizio dicendo “Ecco, così si fa! Guardate lui!” ma veramente non cercavo affatto quella visibilità.
Ho trovato Grace fuori dall’entrata e abbiamo preso lo stesso autobus. Nel racconto fugace dei suoi oltre sessant’anni era arrivata a fare l’istruttrice di aquafitness solo per divertimento, mentre la maggior parte della sua vita la spende come Career Consultant, insegnando ai professori universitari come insegnare e ai ragazzi a capire come ascoltare il cuore. E la sentivo affezionata nel parlare dei suoi allievi, dei ragazzi con cui si era confrontata come coach; aveva negli occhi e nella mente la chiarezza della vita. La tua strada è quella dove il tuo cuore vuole andare, dove batte nel sentire che stai poggiando i piedi su terra viva, che restituisce le vibrazioni che emani.
Sarà che il lunedì mi scompiglia i pensieri dopo un weekend di riposo a ritmi normali, ma è sempre un giorno disperato, arrabbiato, che prenderei un panetto caduto dal carrello e lo calcerei con tutta la mia forza non curandomi di dove possa andare a finire. E così via a scemare nei giorni seguenti, fino a giovedì e venerdì dove una ritrovata calma si appropria delle mie fibre e, pur stanco da tutta la settimana, il ritmo del lavoro non cala e assume carattere di pratica marziale, austera, fino al punto in cui trascendo ogni fatica e nella mia mente non vi è più nessun pensiero negativo ma rimangono solo ricordi divertenti, canzoni che credevo dimenticate, considerazioni sulla bellezza.
Seduto in macchina con D. per il nostro ormai settimanale giro insieme, guardavo Mackin Park e la stradina che mi porta ogni giorno al lavoro e non sentivo il bisogno di andare oltre, di staccarmi da quel lembo di materia; mi piaceva e basta. Ma riconoscevo che il desiderio di vedere e conoscere altri luoghi ha ancora fame in me, proprio in quanto fame di sconosciuto, inaspettato. Entrambe queste sensazioni fondono in una sorta di propellente interno.
Stavamo uscendo e D. mi ha mostrato l’ultimo topo preso con la trappola. Era grosso. Del tipo di una ventina di centimetri senza contare la coda. Se ne stava lì, adagiato con il collo rotto al sole, mentre le sue vibrisse ondeggiavano nel vento. Il sole, che oggi era inusualmente caldo, non poteva nulla su di lui. Ma il dato di fatto è che comunque, dei topi, non frega niente a nessuno.
D. mi ha portato a vedere la casa dove si trasferirà a fine mese: la signora padrona di casa è un’anziana signora con difficoltà motorie che non si alza dal letto ma ha ancora una mente molto affilata. In casa c’era odore di artificialità e i boccoli bianchissimi del suo cagnolino erano morbidi. Ho aiutato D. a scaricare la macchina con le ultime cose da trasportare e poi siamo andati a Langley, dove ne abbiamo portate delle altre e dove D. mi ha offerto l’uso della sua seconda casa per i weekend. Come se non bastasse mi ha offerto il pranzo ed ogni volta che usciamo la questione va a parare su quello che per lei è un’inequivocabile verità: i canadesi non sono avvezzi alla generosità italiana (o meglio, siciliana in questo caso). A quel cerimoniale over-feeding, un'”oltre ospitalità”, non sanno cosa rispondere, si spaventano forse, rimuovono. Mancano quello che sembra l’unico modo, certe volte, di esprimere la felicità se le parole rimangono bloccate in gola.
Sì, D.? Siamo stati fortunati oggi? Ad aver trovato questo sole, senza la pioggia?