You know, inizi il soffritto con un cucchiaino di burro, un po’ d’olio pugliese, una cipolla e la lasci fremere in uno sfrigolìo che ha del sensuale, la lasci lì, dolcemente, guardandola trasalire fino all’acme del suo darsi. Sbatti le uova con veemenza, di polso, finemente. Passi alla lama di un raffinato santoku due spicchi d’aglio affusolati come aculei d’istrice; finisci una patata, umida e densa, in cubini adatti alla bocca del colibrì. Preso dall’estasi, che forse è più dissennatezza, forse ancor più incuria, getti alle uova le macerie di gambi d’erba cipollina di – dal punto di vista di quest’ultima – ere passate. Il grana grattuggiato, vestito di plastica senza bavero, senzatetto accoccolato nell’angolo di un frigo; un battaglione di ceci incazzati, tumidi, procellosi, beffeggiati dal miele che coli all’interno dei millesimi catastali di quell’assurda accozzaglia d’inquilini. Mescola cazzo, mescola a frusta e quando fa più male butta il sale, butta il pepe, ma aspetta il momento buono. Aspetta la soddisfazione dell’aglio nell’abbandonare il proprio corpo e farsi odore, etere, riempire la stanza con la sua anima. Rispetta l’abbronzatura della patata che non è più. Fai andare il fuoco, piano piano, senza mai fermarlo. Ora, ora puoi lasciare. Lascia andare il misto a cui hai affidato i preziosi ingredienti perché esso stesso diviene ingrediente. Lascia coagulare. E piano piano arrotola e ripiega il tappeto di conchiglie, la spiaggia di tesori che si forma a poco a poco. Aggiungi ancora e ripiega di nuovo. Ancora. Lascia che la fragile struttura collassi nel suo trionfo di imperfezione. Lascia che con essa collassi ogni giudizio, ogni esposizione.
A. mi ha mandato una foto dei fiori sulle strade di Vancouver ed è così strano cercare di definire la parola casa se si arriva al punto di sentire che la propria casa è così ampia da non poter gestire la distanza tra le pareti. Un cuore diffuso. Una cena casual.
Proprio mentre mi infilavo le scarpe ho notato un piccolo trancio di materiale nero, largo un pollice, col bordo frastagliato, sbucare da sotto il termosifone. A quello due sottili stecchi erano attaccati, protendendosi in lungo, verso il muro, costringendomi ad esporre la testa oltre il comodino: due braccette altrettanto magre e un viso nero, allungato, da Masai. Era una delle statuette di ebano portate dai miei. Ognuna di esse raffigura un’abitante d’Africa, un ritratto tribale, folkloristico.
Canticchiavo “Ebano” dei Modena mentre imbustavo i libri e smontavo le mensole di camera mia. Uno strano contorcimento interiore. Guidavo verso la mia nuova casa e ascoltavo la voce di Cisco proprio sulle note di quella canzone. Una canzone che, in secondo piano ma nemmeno tanto, parla di casa. E la luce di quel pomeriggio era di perla, l’aria di metallo. Mi bruciavano gli occhi, d’improvviso, lo sciogliersi del metallo. La sua voce era così morbida. Erano istanti nei quali i contesti combaciavano e le parole, per sempre sacre le parole, erano grimaldelli che scassinavano i miei pensieri lasciandoli a boccheggiare fuori dalla pozza dei significati.
Uscire dalla mia casa nell’aria fresca e trovare là in cielo il Baldo così luminoso e definito da sembrare un taglio di cristallo, un quarzo pregiato voluto dalla mano di un abile artigiano, un’ombra diafana e accesa d’artificio, è un regalo immenso. E’ una Cheope, un Fuji. Forse famoso per le sue geometrie è inestimabile e paterno. E’ lui che, da lontano, senza troppo scomporsi se a fine Aprile s’incanutisce febbrilmente, mi racconta che nessuna storia che parla di casa ha una morale. Nessuna casa ha altri muri se non quelli che esistono dentro di noi.