Mentre rinfilavo le mie vecchie scarpe consunte, le puntine degli aghi di una spiga dorata sbucavano da sotto la lingua dei fori dei lacci. Mi porto quella spiga ovunque da moltissimo tempo. Non so da quanto di preciso.
Mi trovo a dover decidere se ora stia facendo la vita di colui è che tornato oppure se, in realtà, non stia proseguendo il viaggio. Iniziamo col dire che la distinzione è prima di tutto interiore: chi torna si ferma. Si attacca al suo albero e lo lascia solo temporaneamente per fare le cose necessarie. Chi parte invece può anche rispostarsi, ricollocarsi spazialmente nei luoghi della propria infanzia o della propria vita stanziale, ma essi non avranno mai lo stesso potere. Rimarranno familiari e belli in modo infinitesimale, ma saranno leggeri e percepiti sempre e solo nella loro continuità, nel loro mutare infinito, senza per questo appesantire lo spirito, senza per questo condizionare la paura.
Ed io mi ero fermato. Se due anni di instabilità mi avevano permesso di germogliare fiori interiori che non immaginavo di avere, la condizione del pericolo e della morte connessa all’incertezza aveva fatto sì che desiderassi ardentemente di tornare. Un lockdown affrontato dall’altra parte del globo, in uno stato di pseudo-esilio, è bastato per spolverare considerazioni nuove, osservare verità di spazi lontani. E poi l’amore. L’amore è quella rosa che non mostra le sue spine. Quella ragione per cui ogni futuro spostamento è diventato difficile da preferire. Ogni cosa diventa materia di calcolo, non estrazione spirituale, non ascolto di risonanza vitale.
C’è qualcosa dentro di noi che a prescindere dall’amore e dalla paura, dalla convenienza e dal pericolo, fa in modo che possiamo sentirci sulla giusta rotta o in balia delle acque. Ma spesso finiamo per accettare di prendere decisioni per amore o per paura, o perché conviene o perché possiamo sentirci al sicuro.
Così da qualche giorno invece sono ripartito. Sono ripartito veramente, senza aver lasciato di nuovo la mia casa di Pove. Ho uno spazio enorme dentro di me eppure mi sembrava che la mia luce passeggiasse sempre in uno stretto circolo. Non pensavo nemmeno di dirigerla verso lidi più lontani. Avevo dimenticato come si facesse. E poi la preoccupazione. La paura di sbagliare, l’ansia, la poca voglia di mettermi in gioco e di sprecare tempo verso un nuovo lavoro. Semplicemente la decisione profonda e inconscia di non dirigermi verso le zone più lontane al di fuori di quel circolo. Ma alla fine ho camminato, passo dopo passo.
Le prime due settimane di quarantena lo scorso Maggio, dopo il rientro in Italia, sono state l’occasione di riposare e recuperare le forze. Avevo portato con me un pesante carico di stanchezza. L’aria umida e calda del centro America, lo stress per la situazione incerta, mi avevano causato un’esplosione di dermatite. Già al gate di San José il clima era diverso, più fresco, ed io aspettavo guardando gli operai attraverso il vetro senza essere davvero padrone del mio tempo. Ero tornato già da molte settimane ma non me ne ero ancora reso conto.
Durante i mesi estivi ho proseguito i miei studi sul pane e ho lavorato in un forno di Verona. Le notti qui sono calde, anche quando si inizia alle 1:00. Ma c’era la pace in quelle ore. C’era pace nella frenesia di dover rispettare le consegne e nella frustrazione di sbagliare un impasto o di bruciare un’intera infornata di rustiche. C’era pace nel non riuscire a perfezionare la manipolazione del pane se non nelle ultime settimane. Le giornate diventavano strecthate come l’impasto che preparavamo, ma non sembravano più lunghe. Però passavo le mie ore di veglia in stato di ebbrezza. Sballare il ciclo circadiano dà l’effetto di sembrare sbronzi. Chissà, forse cercavo solo di mitigare la mia realtà, addolcirla pur non usando sostanze.
Lucidata la mia bici mi regalavo lunghe pedalate in tutte le direzioni. Verso Ovest, su dai pontaroni di Custoza e tra i persegari di Valeggio; verso Nord e la città; verso Est e a Sud, soprattutto sulla nuova ciclabile che taglia i paesi e collega Mantova a Zevio, San Martino e agli argini del’Adige. Nel cielo turchese il campanile avorio di Azzano compariva sull’orizzone dei campi fulgenti d’oro grezzo come la puntina di un giradischi. Ed allargare le braccia all’Universo, mentre andavo nei flutti di vento caldo, era tutto ciò che potevo fare per far entrare l’Universo dentro di me.
Correvo tra i campi di pannocchie alte e verdi come la gola della giungla panamense. Ecco dove avevo già sentito la stessa afa, la stessa mano umida che ti comprime i polmoni mentre ansimando chiami ossigeno per le tue cellule. Erano le mie estati, le mie sudate, le corse sotto gli innaffiatoi a pioggia sparati sulle maree di spighe ondulanti.
Non c’è più qualcosa che amo e qualcosa che ho amato. Ma un tutto estensivo ed omogeno. Un tappeto in cui coesistono colori e tecniche differenti, dal quale è impossibile compiere passi al di fuori.