Cosa fai? Guardo la neve.

La cattività. Uno dei fatti più oggettivi legati all’attuale situazione pandemica è l’esperienza, provata da milioni di persone, di vivere come una tigre allo zoo. Solo che nessuno, per quanto i tatuaggi o le canzoni che ascolta comunichino personalità, è una fottuta tigre.

Devo dire in tutta franchezza che rimanere a casa dal lavoro e condividere un monolocale con il mio collega per quattro mesi, in alta montagna, senza che smetta mai di nevicare, mi prova decisamente. Non perdo la sanità mentale, almeno spero, ma che la mia serenità acquisti un andamento erratico quello sì, succede. Per cui ieri sera la testa mi prudeva, la pelle era secca e mi dava fastidio. Questo è un segnale: le situazioni di disagio accentuano la mia dermatite. Sembrava che ogni attività a cui mi dedicassi non facesse altro che alimentare un’apatia divorante. Nulla andava bene. La pelle scricchiolava. A letto mi sentivo annichilire e desideravo che la giornata finisse.

Poi oggi ho camminato. Camminare è la più antica delle medicine. Sono uscito nella neve alta, tra i fiocchi pioventi. I primi passi erano pesanti e dovevo respirare più forte per chiamare ossigeno. Scivolavo di tanto in tanto. Le ruspe e i camion liberavano le strade. Le montagne sfumavano in bianco ed il cielo non esisteva più. Se alzavo la testa vedevo solo il foglio bianco Fabriano dell’ora di artistica alle medie, quando il disegno era ancora da iniziare.

Lei lo sa, mi aveva detto che dovevo uscire. E ci siamo chiamati al telefono ed era come se stessimo passeggiando insieme.

Mi sono fermato in una delle vie laterali. Finiva in un grosso cumulo di neve che dava sopra il fondovalle. Lontano il lago ghiacciato ci divideva da Tignes Le Lac e alcune persone sciavano sulla sua superficie. Dei cani abbaiavano in lontananza mentre tre slitte preparavano le mute alle quali erano attaccate. Qualche minuto dopo eccoli partire come negli inverni artici.

In quel momento avevo freddo ma non sentivo freddo. Ero fermo ed intorno c’era silenzio. Il suono esatto della neve quando cade. Silenzio. Il peso accumulato nelle fibre e nell’anima se ne andava. E’ stata una sensazione bellissima, di dolcezza… come una carezza di vita. Dimenticarsi della pesantezza e ritrovare la comunione con l’aria, con l’aperto, con lo spazio. Con il silenzio.
Quindi mi sono diretto a comperare una pagnotta di pane alle noci. Voglio sempre avere, ovunque vada, una fetta di pace da mangiare.

Inchiostro

Oggi ho pulito il pennino. Si può vedere dal colore di queste lettere, che il colore è sbiadito. Ci vuole un po’ perché l’acqua esca completamente e l’inchiostro riacquisti il suo blu intenso. Ho appena rinfrescato il lievito e messo sulla mensola a fermentare. Si tratta di aspettare. C’è una bellezza particolare in questo, nel lasciare al tempo il lavoro. A. si è messo sul divano a dormire. Io sono al tavolo, informalmente diventato la mia scrivania. Fuori nevica assai. Per qualche giorno abbiamo potuto vedere l’asfalto ma da questa mattina tutto è tornato bianco. L’aria gonfia di fiocchi.

Diresti che non è una giornata rimarchevole, come questo inchiostro sbiadito. Eppure sono giornate come questa che inevitabilmente calamitano la mia attenzione alla vita. Sono giornate che esistono per parlare di loro stesse.

Da tempo non conosco più la noia. Perché la maggior parte della mia esistenza è divorata da interessi, lavoro e amore. Mentre invece i momenti silenti, ossia quelli che respingono ogni richiamo a qualsivoglia attività, finiscono per rivelare se stessi, per mostrare finalmente la sottile grana del tempo. Sono momenti di irrequietezza molto profonda, nei quali l’inquietudine si affaccia oltre i parapetti del cuore. Oppure pensavi che sapessero di serenità e spensieratezza? Non mi considero così maturo da poter accogliere la sostanza del tempo con la pacifica indole di chi sa già accettare la vita nella sua smisurata e inconoscibile interezza. Restare nei momenti di rivelazione del senso è un esercizio complesso.

Per questo le giornate più semplici, routinarie, quelle che nascondono la tentazione di far dire, una volta arrivati a casa la sera, “Eh oggi niente di particolare”, sono le più importanti. Anche un inchiostro sbiadito infatti, posside il carattere di rimanere sulle pagine a conservare i messaggi che gli sono affidati.

Glacier

La Grande Motte ci guardava dall’alto come una mamma mentre io e A. salivamo lungo le sue caviglie. Abbiamo noleggiato un paio di raquettes per addentare la neve morbida dei versanti della Val Claret. Le guance imbiancate delle montagne brillavano, emozionate da un sole così caldo e potente da soffocare l’obiettivo della fotocamera. Insieme agli sbrilluccichii dell’universo di cristalli brillavamo anche noi, infiammati dalla voglia di salire.

Avevamo voglia anche di guardare la valle come non l’avevamo ancora vista, localizzare la nostra vita attuale in un punto del mondo che non fosse all’interno dei muri di un monolocale, ma ben definito sulla faccia della terra. Noi siamo lì! Un labrador faticava a seguire il gruppo in cui marciava il suo padrone, che si arrampicava sugli sci usando le pelli di foca. Una zampa dopo l’altra sprofondava, affaticandosi molto. Lungo la pista da sci, ancora ben pulita, la rete rossa spiccava come un taglio sulla pelle. Potevo togliermi la giacca. Il sudore mi bruciava gli occhi mentre stringevo le bacchette sul declivio sempre più pendente. Le ciaspole danno una grande stabilità sui pendii molto scoscesi, ma rimane comunque la fatica di salire. Fatica che si risolve con la soddisfazione di sentirsi leggeri come l’aria che ti circonda, fredda e avvolgente.

Il piano era raggiungere la cresta e poi tornare indietro seguendo la pista da sci all’ombra della vetta. La Grande Motte pareva accigliata. Come il vecchio gufo Anacleto nel cartone de La Spada nella Roccia. Senza alzare troppo la testa sentivo che ci fissava mentre procedevamo nelle sue sale.

L’altro giorno A. smanettava al computer e una pubblicità gli si è aperta. Una di quelle pubblicità che ormai si aprono automaticamente, che hanno trasformato internet in un banco per i compromessi. La ragazza diceva “What am I when I am not productive?”
Oggi ho voluto rispondere a questa domanda. Quando non sono produttivo cammino sulle montagne, respiro aria buona, sudo, accolgo il sole su di me, evito di spendere in corsi online, faccio tesoro del freddo che mi intirizzisce i peli e rinvigorisce la pelle, dimentico tutto ciò che è basso, egoistico, speculativo, fuorviante. Ricordo cosa sono io prima di essere quello che faccio, o peggio, quello che produco. Guardo in alto alle vette ed inevitabilmente mi abbasso, mi affaccio di nuovo alla terra e divento uno di quei fili d’erba che d’inverno non si vedono. Quando il mio essere non esiste solo quando produco qualcosa sono un fiore del campo. Ritorno.

Le riflessioni della ruggine

Una tisana per cenone la sera della vigilia. Pulizia di tutta la casa – pardon, stanza – come regalo la mattina del 25 Dicembre. Un po’ di pilates e la neve fuori che turbina da due giorni. Su instagram una balena solca la superficie dell’acqua trasparente sospingendosi con una pinna e reggendo l’altra, sopra la quale nuota il suo piccolo ed insieme seguono una direzione a noi sconosciuta. Intorno l’oceano. Nessun altro legame. Solo lo sconfinato e imprevedibile oceano.

Certe volte, anzi la maggioranza del tempo, mi trovo a gongolare nel comfort del calduccio. Il calduccio è quella cosa bella che ti avvolge non quando sei semplicemente sdraiato sotto una coperta o vicino al fuoco, ma quando sei in luoghi comodi e accoglienti come quelli ed hai la mente libera dalle preoccupazioni, senza pesi né scadenze pendenti.

Il calduccio è questa piccola stanza diventata accogliente. Un riparo dal clima ingrato dei 2000 metri alpini. Ci stai così bene e tutti sono contenti perché sei al sicuro. Ma poi uno spot pubblicitario su Instagram ti mette sottosopra di nuovo. Vedi due balene scivolare nella loro sostanza infinita all’infinito, verso la loro direzione che tu non saprai mai né potrai mai possedere. Le vedi fare quello che sentono giusto a prescindere che qualcuno le stia filmando per possederne l’immagine, per manipolare l’illusione di libertà. Eppure quelle balene, a discapito del motivo per cui sono state immortalate, ti colpiscono, perché nessuno è immune alla percezione della libertà.

Gotham Chess. C’è questo canale su YouTube, di questo ragazzo che spiega gli scacchi così bene da farmi provare il tepore del comfort. Per uno strano rimescolio nella mia testa poi, mi viene in mente Gotham, il telefilm che i miei peers guardavano nelle sere scozzesi durante il volontariato di Creag Meagaidh. In quel periodo lavoravamo alla sistemazione della farmhouse e del territorio della riserva. Quasi sempre pioveva e dovevamo andare ad abbattere le specie di alberi non native, oppure costruire ponti che implicavano la sistemazione dei fondali dei burns – i piccoli rii che venano le highlands – oppure tagliare l’erba e controllare i sentieri. Significava tornare sempre bagnati la sera. Fatta la doccia mi sistemavo al tavolo della cucina davanti al computer per annotare la giornata. Scrivevo con l’obiettivo preciso di creare una narrazione che mi piacesse, senza immaginare che avrebbe potuto leggere qualcun altro. Lì ogni tanto giravo la testa alle mie spalle verso il grosso finestrone e guardavo il coire senza capacitarmi – succedeva ogni singola volta – della bellezza e della straordinarietà di quel luogo.

Passava qualche ora mentre attorno a me i ragazzi cucinavano i piatti che mangiavano abitualmente a Malta, nel Lake District inglese, in Francia o in Olanda e poi uno alla volta restituivano la cucina al silenzio e a me. Andavano spesso a passare le ultime ore di veglia nella sala all’altro capo del corridoio, arredata con divani e un grosso televisore. Lì avevano iniziato a guardare Gotham. Non mi interessava particolarmente, ma starmene lì, con quella gente, al calduccio nelle highlands notturne, mi dava i brividi e poi mi calmava.

Anche stare a spasso in un villaggio alpino, mentre la neve cade, ti fa sentire al calduccio. Basta che esista solo la neve e che, ad un certo punto, tu smetta di fissare anche quella mentre la tua mente si perde nel presente. Fissavo un punto indefinito oltre la strada, oggi fuori da Chevallot. Guardavo la neve facendo quel tipo di sforzo che si fa per vedere gli stereogrammi e i fiocchi, che cadevano piccoli e medi senza produrre nessun rumore. Diventavano un’estasi di movimento che mi trasportava su un treno puntato verso il cielo.

Un cielo di rosso e viola. Incrostazioni di ruggine sul blu profondo delle teglie di ferro del ristorante. E’ proprio quando lavori manualmente, in innumerevoli atti ripetivi che la mente si alleggerisce come quando fissi la neve, come quando sei al calduccio. Amare la vita non più perché si incontra la propria volontà negli eventi, ma amarla per ciò che è, per la sua sostanza, per la sua imprevedibilità. Non abitare né possedere per capire che il punto fermo dell’universo è ogni singolo essere umano.

I social media, ah… Più spendo tempo su YouTube o su Facebook e più le pubblicità del guadagno facile, i grossi numeri e la discussioni in difesa dell’orgoglio mi fanno venire voglia di dire “Anch’io!”. Poi, guardando un frangente di Kobra Kai, mi è tornato in mente quanto la semplicità del non avere può liberare e rendermi leggero. Quanto maledettamente e disperatamente invidio quelle balene. Ma anche quanta umiltà mi serve per imparare da loro cos’è l’esistenza.

Viaggiamo insieme

Ho aperto la tenda con sopra ricamati gli stambecchi e il Tovière se ne stava là, con la sua pappagorgia di neve e il piercing di funivia a guardarmi dai suoi 2700 metri come per dirmi “Ma cosa cazzo vuoi fare te”. Allora ho detto ad Andrea: “Io mi sa che oggi vado a fare una camminata”.

Lui pure ha voluto venire. Così ci siamo incamminati dall’uscio di casa in Rue de Val Claret ed oltre la strada, verso l’arrivo della pista da sci per farle il contropelo salendo a piedi.

Abbiamo provato sì a deviare in qualche fuori pista, ma la neve al ginocchio non rendeva così gradevole la salita.

Aggirata la pancia esposta al sole la vetta, e la cima sorella subito sotto, stavano ancora ritte sopra di noi come le tettine di Umberto Smaila in canoa.

Il versante in ombra diventava una rampa di neve battuta davvero poco adatta ai nostri doposci. Perdere l’aggancio voleva dire cadere e non sapere dove ci saremmo fermati. Per cui Andrea, più stanco, ha deciso di tornare. Io volevo salire, avevo deciso molto prima di partire.

Ho cercato il lato della pista e mi sono fatto strada nella neve fresca arrancando e impiegando molta energia. Dopo diverse pause, fatte con cadenza di circa quindici metri l’una dall’altra, ho iniziato a salire a quattro zampe, usando anche le mani per distribuire il peso ed affondare di meno, guadagnando in velocità e stabilità.

Seduto ad aspettare che passasse la nausea per lo sforzo contemplavo la vista. La Grand Motte a nord nascosta dalle nubi nevose; Tignes di sotto col suo sorriso di hotel; l’aureola arcobaleno del sole oltre la cresta.

Sono salito fino a guardarlo negli occhi, il sole. Oltre quella salita impietosa il dislivello tornava ad essere dolce. La pista finiva attorcigliandosi come un boa attorno alla cima.

Sono sceso con cautela in un continuo esercizio di concentrazione. Le montagne a poco a poco tornavano ad alzarsi.

Oggi i doposci erano ancora bagnati dal sudore e dalla neve. Per andare a lavorare ho dovuto indossare gli scarponi da trekking. Questi scarponi sono stati a riposo in una busta di plastica nel giardino di casa per sei lunghi mesi, dal mio ritorno dal Costa Rica.
Me li sono infilati dopo averli sbattuti ma lo stesso ho avvertito una piccola punta incontrare il mio alluce. Un piccolo oggetto appuntito, una resistenza debole. Mi sono sfilato la scarpa sentendo solo un ronzio. Una grossa vespa è uscita a respirare. L’ho portata fin qui da casa. E’ stata una settimana intera nello scarpone sopra il mio letto ed ora usciva.
L’ho messa fuori dalla porta ma né al paese né qui, dove nevica e i gradi vanno sotto zero, avrebbe potuto sopravvivere all’inverno.
Si è rannicchiata in uno dei buchi del tappeto dell’entrata, sapete quei tappeti anti scivolo fatti a maglia di buchi? Con buchi grandi alternati a buchi piccoli. La vespa è finita in uno dei buchi piccoli. Si è guardata intorno un poco, colpita dall’aria fredda. Con passo incerto è ceduta nel buco piccolo come una moneta da un centesimo, rannicchiandosi, e lì è rimasta.

Addio, amici addio

Prima di partire due anni fa avevo una gran fretta. La mia scrivania era rimasta colma delle carte e dei libri che avevo intenzione di leggere come se il mio futuro fosse quello di continuare a sedermici. Stasera invece la mia stanza è vuota come non è mai stata. Le librerie sono smangiate dopo aver venduto parecchi libri. I cassetti vuoti. Le Lego, le mie costruzioni, demolite e ricondotte al loro stato primordiale di cellule.

Dopo vent’anni da quando le avevo costruite, mi sono deciso a decomporle per poterle conservare meglio in un paio di grossi contenitori di plastica. Questo renderà più agevole il loro spostamento e, allo stesso tempo, le restituisce alla loro vera ragion d’essere: servire da mattoncini per realizzare le idee fantastiche di chi le usa. Ed io, da tempo oramai, non le usavo più a questa maniera. Sebbene il mio senso di possesso mi facesse sempre gongolare nell’ammirarle in tutta la loro ingegneristica bellezza, la parte più progressista e matura di me invece penava per la loro sorte. Le costruzioni sono di quegli oggetti inanimati che più si avvicinano ad essere considerati vivi: servono il gioco, la parte più genuina e fresca delle persone, e non sono altro che meccanismi del divenire. Possono e anzi devono essere modificate. Costruite e poi distrutte una, due, infinite volte. Altrimenti muoiono diventando semplice plastica.

Mentre sedevo preso da una smania distruttrice, mi accorgevo di come la difficoltà di mettere mano alle costruzioni della mia infanzia lasciasse il posto a una certa voracità. Toccavo gli stessi pezzi con cui occupavo i miei pomeriggi negli anni delle elementari, medie e superiori ed in quel momento, proprio durante il processo di smontaggio, mi appariva chiaro che doveva andare così. La loro funzione non veniva esaurità in quel modo, anzi, veniva ricaricata, resettata e rinfrescata. E che stupore nel constatare oggi, dopo che in tutta una vita ho acquisito conoscenze ed esperienze, quanto i progetti e dettagli di ognuno dei modelli che avevo costruito fossero accurati e precisi, geniali.

Un camion che può eseguire percorsi prestabiliti grazie ad una memoria che può essere istruita grazie alla lettura di codici a barre; uno space shuttle dotato di braccio meccanico e portelloni elettrici, con illuminazione posteriore e fibre ottiche; un sottomarino con pinze anteriori a comando idraulico tramite bombola di compressione integrata; il modello di una dragstar con blocco motore a pistoni a nudo e illuminazione a fibre ottiche; un camion-gru con braccio telescopico; il Cybermaster: un cingolato con pinza a sensore di pressione radiocomandato tramite software sul computer; due castelli, un veliero, una stazione di lancio, un’astronave e diversi chili di mattoncini sparsi. Quando si ha una passione…

Parto per cinque mesi di lavoro tra le Alpi Francesi orientali e la casa dove ho vissuto la mia vita fino a questo momento potrà non essere la stessa quando tornerò. Ho sfogliato le cataste di fogli sparsi e vecchi blocchi per gli appunti che erano costellati delle note di decine di riunioni. Arrivato davanti al cassone dell’isola ecologica ho guardato per l’ultima volta quella mole, ringraziando la carta e l’inchiostro per il loro servigio, per la loro funzione di memoria. Con un po’ di paura e tanta nostalgia li ho lasciati cadere in mezzo a tanti altri fogli e scatoloni sconosciuti.

Molti degli oggetti che ho racimolato in lungo e in largo invece troveranno nuovi proprietari. Vecchi giochi, materiale elettronico, portachiavi, racchette da spiaggia, accessori, tutte cose che nel mio presente non hanno vero motivo di continuare ad appartenermi e che nel mio futuro sarebbero destinate a scomparire nell’oblio profondo e inscrutabile della vita che condurrei dimenticandomi di loro. Così li ho portati al centro per il riuso, affidandoli ai volontari e sperando che facciano il bene di altre persone così come hanno fatto il mio.

Dalla scorsa estate ho venduto molti libri e fumetti. Tra le cose a cui tengo di più, semplicemente anche in questo caso il mio sentire non mente. La leggerezza che deriva dal distacco dagli oggetti è troppo ben conosciuta ormai per cascare nel tranello della nostalgia. E’ sempre difficile e un po’ doloroso distaccarsi da ciò che ha contribuito alla mia serenità e alla mia formazione intellettuale, ma la consapevolezza del valore di questo atto è impagabile. Come l’effetto che esso procura è anche impagabile. Ed altri potranno godere delle pagine bellissime che ho letto in tanti anni ed i libri saranno più vivi che mai passando di mano in mano, parlando ad ognuno di coloro che li leggerà.

Due anni fa me ne andavo per capire in che modo la mia vita dovesse evolvere, quale fosse il risultato di vivere nell’instabilità per scelta. Volevo coltivare i principi dello spirito attingendo al momento presente così da imparare ciò che portava. Ecco il risultato. Il desiderio di possedere il meno possibile. Una più naturale inclinazione alla leggerezza. La meraviglia nell’abbracciare il cambiamento.

E se intanto vivo

Guidando nel pomeriggio scuro di oggi il freddo mi muoveva i pensieri. Come facevo a svegliarmi la mattina in mezzo a Pirenei e ad uscire a cavallo del quad nella neve e nella pioggia tutto il giorno, tutti i giorni, per poi salire sulla montagna per dare il mangime alle vacche? E’ terribile sentire il freddo che dà la paura. In quei giorni di Gennaio mi sedevo sul muretto e guardavo il tramonto insieme al freddo e nessuna paura avevo dentro di me. Era come se il fuoco del mio spirito bastasse per non farmi tremare e allo stesso tempo per farmi sentire vivo, mantenermi entro le vibrazioni della vita. Ardente. Senza avere nulla in particolare. Con un bassissimo stipendio, poche garanzie, niente veramente da mettere a curriculum.


Allora forse era quella famiglia di sconosciuti che parlavano un lingua diversa dalla mia, il panorama della valle che dirompeva nelle mie debolezze, i cani, i cavalli, la leggerezza, erano queste forse le cose che così tanto mi sostenevano nel credere che se la mia vita fosse finita in quel momento sarebbe andato bene così. L’ultima vera consapevolezza. La sconfitta dell’ego.


Stranamente, sono riuscito a mantenermi in quello stato solo temporaneamente. Checché se ne dica, coltivare il benessere per me, individuo moderno, è più difficile che rimanere nel quotidiano esercizio della disperazione. L’esercizio del possesso e del giudizio.


Guidando nel pomeriggio scuro di oggi mi ponevo delle domande delle quali intuivo le risposte, ma non ne capivo il perché. Perché non posso semplicemente fare a meno di arrabbiarmi? Perché non posso essere perennemente gentile? Perché non posso sostenere ogni giorno la mia integrità, agire sempre con amor proprio, volermi bene senza per questo dovermi sentire in colpa? Perché non si può vivere ogni giorno con lo stato d’animo che si vuole, invece di sentirsi sempre vittime, giudici, colpevoli, arrabbiati, tristi, incompresi, impotenti, rifiutati, attaccati, disorientati?


Prima di partire avevo concepito il manifesto di quella scelta. Vivere nell’instabilità. Volevo capire cosa avrebbe portato, come mi avrebbe reso scegliere razionalmente ogni volta l’alternativa meno sicura. Solo ora però ne comprendo veramente gli effetti. Effetti devastanti che fanno spiccare il vero carattere dei comportamenti e dei processi del mondo come inchiostro nero su carta bianca. Spicca la mia responsabilità verso me stesso.


Spicca anche in modo molto, molto netto che ho paura di andare, di cambiare, di lasciare. Un freno mi trattiene dal buttare i miei oggetti mentre preparo la mia stanza per il futuro trasloco. Ho paura di buttare le mie cose, i miei ricordi, le cose che mi permettono di ricordare. Per cui mentre guido nella sera buia capisco che gli uomini non hanno mai così tanta paura di essere dimenticati quanto quella di dimenticare.

Zolle

D’autunno i campi assomigliano a laghi ghiacciati. Onde misurate e regolari, grosse zolle lucide di taglio e umide di nebbia, immobili nei rintocchi del campanile.

Fazzoletto di verde e risorgive
che il Tartaro incammina verso il mare
nell’aperta campagna sotto i monti,
affiora la tua storia dalla terra
ferita per millenni dall’aratro
umile fango di sudori umani
ed humus di palude, creta e ghiaia.

Sergio De Guidi

Was Ich Liebe

Mentre rinfilavo le mie vecchie scarpe consunte, le puntine degli aghi di una spiga dorata sbucavano da sotto la lingua dei fori dei lacci. Mi porto quella spiga ovunque da moltissimo tempo. Non so da quanto di preciso.

Mi trovo a dover decidere se ora stia facendo la vita di colui è che tornato oppure se, in realtà, non stia proseguendo il viaggio. Iniziamo col dire che la distinzione è prima di tutto interiore: chi torna si ferma. Si attacca al suo albero e lo lascia solo temporaneamente per fare le cose necessarie. Chi parte invece può anche rispostarsi, ricollocarsi spazialmente nei luoghi della propria infanzia o della propria vita stanziale, ma essi non avranno mai lo stesso potere. Rimarranno familiari e belli in modo infinitesimale, ma saranno leggeri e percepiti sempre e solo nella loro continuità, nel loro mutare infinito, senza per questo appesantire lo spirito, senza per questo condizionare la paura.

Ed io mi ero fermato. Se due anni di instabilità mi avevano permesso di germogliare fiori interiori che non immaginavo di avere, la condizione del pericolo e della morte connessa all’incertezza aveva fatto sì che desiderassi ardentemente di tornare. Un lockdown affrontato dall’altra parte del globo, in uno stato di pseudo-esilio, è bastato per spolverare considerazioni nuove, osservare verità di spazi lontani. E poi l’amore. L’amore è quella rosa che non mostra le sue spine. Quella ragione per cui ogni futuro spostamento è diventato difficile da preferire. Ogni cosa diventa materia di calcolo, non estrazione spirituale, non ascolto di risonanza vitale.

C’è qualcosa dentro di noi che a prescindere dall’amore e dalla paura, dalla convenienza e dal pericolo, fa in modo che possiamo sentirci sulla giusta rotta o in balia delle acque. Ma spesso finiamo per accettare di prendere decisioni per amore o per paura, o perché conviene o perché possiamo sentirci al sicuro.

Così da qualche giorno invece sono ripartito. Sono ripartito veramente, senza aver lasciato di nuovo la mia casa di Pove. Ho uno spazio enorme dentro di me eppure mi sembrava che la mia luce passeggiasse sempre in uno stretto circolo. Non pensavo nemmeno di dirigerla verso lidi più lontani. Avevo dimenticato come si facesse. E poi la preoccupazione. La paura di sbagliare, l’ansia, la poca voglia di mettermi in gioco e di sprecare tempo verso un nuovo lavoro. Semplicemente la decisione profonda e inconscia di non dirigermi verso le zone più lontane al di fuori di quel circolo. Ma alla fine ho camminato, passo dopo passo.

Le prime due settimane di quarantena lo scorso Maggio, dopo il rientro in Italia, sono state l’occasione di riposare e recuperare le forze. Avevo portato con me un pesante carico di stanchezza. L’aria umida e calda del centro America, lo stress per la situazione incerta, mi avevano causato un’esplosione di dermatite. Già al gate di San José il clima era diverso, più fresco, ed io aspettavo guardando gli operai attraverso il vetro senza essere davvero padrone del mio tempo. Ero tornato già da molte settimane ma non me ne ero ancora reso conto.

Durante i mesi estivi ho proseguito i miei studi sul pane e ho lavorato in un forno di Verona. Le notti qui sono calde, anche quando si inizia alle 1:00. Ma c’era la pace in quelle ore. C’era pace nella frenesia di dover rispettare le consegne e nella frustrazione di sbagliare un impasto o di bruciare un’intera infornata di rustiche. C’era pace nel non riuscire a perfezionare la manipolazione del pane se non nelle ultime settimane. Le giornate diventavano strecthate come l’impasto che preparavamo, ma non sembravano più lunghe. Però passavo le mie ore di veglia in stato di ebbrezza. Sballare il ciclo circadiano dà l’effetto di sembrare sbronzi. Chissà, forse cercavo solo di mitigare la mia realtà, addolcirla pur non usando sostanze.

Lucidata la mia bici mi regalavo lunghe pedalate in tutte le direzioni. Verso Ovest, su dai pontaroni di Custoza e tra i persegari di Valeggio; verso Nord e la città; verso Est e a Sud, soprattutto sulla nuova ciclabile che taglia i paesi e collega Mantova a Zevio, San Martino e agli argini del’Adige. Nel cielo turchese il campanile avorio di Azzano compariva sull’orizzone dei campi fulgenti d’oro grezzo come la puntina di un giradischi. Ed allargare le braccia all’Universo, mentre andavo nei flutti di vento caldo, era tutto ciò che potevo fare per far entrare l’Universo dentro di me.

Correvo tra i campi di pannocchie alte e verdi come la gola della giungla panamense. Ecco dove avevo già sentito la stessa afa, la stessa mano umida che ti comprime i polmoni mentre ansimando chiami ossigeno per le tue cellule. Erano le mie estati, le mie sudate, le corse sotto gli innaffiatoi a pioggia sparati sulle maree di spighe ondulanti.

Non c’è più qualcosa che amo e qualcosa che ho amato. Ma un tutto estensivo ed omogeno. Un tappeto in cui coesistono colori e tecniche differenti, dal quale è impossibile compiere passi al di fuori.

Gli scafisti

Questa è una storia triste che parla di tristezza e delusione. Esula un poco dai miei soliti temi, ma magari torna a utile a qualcun altro.
Non ho mai pubblicato nulla, ma qualche volta ho provato a contattare delle case editrici, informarmi sui tipi di collaborazione, su come funziona l’industria editoriale. Non ne so molto, ma ne so abbastanza per sapere che è difficile vendere tantissimo con libri di poesie, ma a quanto pare è molto facile essere pubblicati. Ci sono case editrici che pubblicano libri scegliendo testi belli, fatti bene, che sanno che venderanno e che quindi meritano un contratto perché quei testi rappresentano il prodotto di un rapporto di lavoro. Questo spiega come mai io non sia riuscito a pubblicare, perché semplicemente il mio testo non era buono abbastanza. Ne sono consapevole e lo accetto con serenità senza smettere di amare la scrittura. Poi ci sono quelle case editrici che invece chiedono soldi agli autori per coprire le spese di pubblicazione. In questo modo se il libro vende bene!, se non vende sono ca**i tuoi. Ma almeno puoi dire che hai pubblicato. Infine ci sono quelle case editrici che hanno l’approccio di un call centre e l’affettuosità di un usuraio.
Questa è la storia di un piccolo merluzzo nel mare. La mia.

Alzi la mano chi ama la poesia! Alzi ora la mano chi ama scrivere poesie! Alzi quindi la mano chi crede in quello che scrive, componendo versi o stendendo racconti o libri, mettendoci dentro ciò in cui crede, le proprie idee, opinioni, desideri, proiezioni, il proprio slancio o la propria liberazione verso il mondo, insomma se stesso o se stessa.
Sì, anche io ho alzato la mano.
Mi ha interpellato una voce flebile, come di una signora tra i cinquanta e sessanta. Chiamava da Roma.
Ma facciamo un passo indietro. Stavo tranquillamente scorrendo il wall di facebook quando, tra la miriade di post alternati ad annunci pubblicitari mi esce quello del concorso di poesia gratuito promosso da Poeti e Poesia (http://www.poetipoesia.com/). Gratuito, con premio in denaro di 1.500€ e con la possibilità di essere pubblicati se ritenuti meritevoli di tale riconoscimento. Poi mi esce un altro ad mirato, poiché avendone già aperto uno facebook automaticamente riconosce quel click come collegato alle mie materie d’interesse e mi propone il concorso Dantebus, per poeti, gratuito con premio in denaro fino a 500€. Vado a prendere due poesie e ne mando una al primo e l’altra al secondo. Mando anche il link del concorso a M. che magari gli può mandare una delle sue poesie e forse vince! Ma spero di vincere io eheh! Beh, vinca il migliore quindi! Io intanto vado a preparare i calici, perché comunque vada sarà un’ottima occasione per trovarci e discutere un po’ di poetica e di vita.

Sabato mattina avevo ancora le caccole negli occhi mentre mi esercitavo con i problemi di scacchi quando suona il cellulare. Leggo sullo schermo il numero 392 9634534. A chiamarmi è la dottoressa Benedetti della casa editrice Pagine, che curava il concorso di Poeti e Poesia.
[I seguenti dialoghi non corrispondono alle esatte trascrizioni.]
«Buongiorno. Parlo con il signor Luca Fraz?»
«Pronto buongiorno, sì chi è?»
«Buongiorno Luca, la chiamo dalla redazione del concorso al quale ha mandato la poesia “Cassiera”, è lei l’autore?»
«Sì sì sono io!»
«Benissimo le volevo dire che la poesia ci è piaciuta tantissimo. Volevo chiederle se per caso lei ne scrive altre.»
«Beh sì, non con continuità ma sì.»
«E ha mai pensato di pubblicarle?»
«Uhm in realtà no…»
«Perché noi stiamo selezionando alcuni degli autori che partecipano al concorso (che ha comunque scadenza di lì a quattro o cinque mesi, non ricordo bene) per pubblicare un raccolta di poesie. Le potrebbe interessare?»
Non mi sembrava vero! Ho mandato delle poesie a qualche concorso qualche volta, ma credo a non più di quattro o cinque in tutta la mia vita. Che koolo!
«Certo sì mi interessa!»
«Bene le spiego il progetto, perché implicherà anche la sua partecipazione. Pubblicheremo un libro dedicato solamente a 7 o 8 autori, quindi con una decina di pagine dedicate alle sue poesie. Lei avrà sei copie personali e quando parteciperemo alle fiere lei sarà invitato. Inoltre avrà una pagina personale sul nostro sito internet con la sua biografia e le sue poesie.» (aggiunge altre cose che non mi ricordo)
«Wow è fantastico!»
«Il tutto al prezzo di pubblicazione di 300 (non mi ricordo di preciso ma intorno ai 300) euro. Le interessa il progetto?»
Dentro di me si apriva piano piano una piccola crepa.
«Beh ecco, adesso non ho la disponibilità di investire questi soldi. Però mi ci faccia pensare.»
Quello che forse i call centre, i promoter, i gabbatori ecc… non sanno è che più storie vengono raccontate alle persone e più queste finiscono entro dei pattern, diventano cioè sempre più riconoscibili. Per cui mi ero preso il tempo di fare le mie ricerche su internet in merito soprattutto al numero di telefono. Il quale, inserito su google, mi porta al post di un sodale che aveva vissuto la stessa mesmerizzante esperienza, potete leggere il commento qui: https://www.chistachiamando.it/numero-telefono/3929634534.
«Non mi può dire di sì quindi?»
«Eh no guardi devo pensarci un attimo.»
«Va bene allora se ci sentiamo Lunedì?»
«Certo va bene ci sentiamo Lunedì.»
E quindi concludo la chiamata. Ma cosa strana, dopo un quarto d’ora ecco lo stesso numero che mi richiama. Chissà che vorrà la dott.ssa Benedetti? 😀
«Pronto?» rispondo.
«Buongiorno. Parlo con il signor Luca Fraz?»
«Mh sì?»
«Buongiorno Luca, la chiamo dalla redazione del concorso al quale ha mandato la poesia “Cassiera”, è lei l’autore?»
«Sì sono io…»
«Benissimo le volevo dire che la poesia ci è piaciuta tantissimo. Volevo chiederle se per caso lei ne scrive altre.»
«Ah ma guardi che ci siamo sentiti poco fa.»
«No non è possibile.»
«Sì sì mi ha chiamato poco fa spiegandomi del progetto.»
La dott.ssa Benedetti biascica qualcosa di incomprensibile.
«Ah quindi le ho già spiegato il progetto?»
«Sì, siamo rimasti d’accordo che ci sentiamo Lunedì per la conferma.»
«Ah benissimo, a Lunedì allora.»
Qualcosa dentro di me era morto, ma ero in pace.

Arriva Lunedì. In mattinata mi chiama la dott.ssa Murgia del concorso Dantebus dal numero 339 2022507.
«Buongiorno parlo con Luca?»
«Buongiorno sì.»
«Salve sono la dott.ssa Murgia del concorso Dantebus.»
«Ah buongiorno!»
«Le volevo dire che abbiamo selezionato la sua poesia perché è scritta molto bene e ci è piaciuta molto!»
«Ah ma che bello!»
«Lei scrive poesie? Ne ha scritte altre?»
«Beh sì qualcuna l’ho scritta.»
«E per caso ha mai pensato di pubblicarle?»
«Beh no non ci ho mai pensato.»
«Ma perché non ci ha mai pensato o perché è troppo oneroso?»
«Beh perché non ci ho mai pensato seriamente.»
«Ah va bene perché io le proporrei un progetto. Si tratta di un libro in cui vengono raccolti solo gli autori selezionati del concorso, che sono otto, per cui lei avrebbe 12 pagine per le sue poesie più 2 dedicate all’introduzione da parte di una critica letteraria. Inoltre avrebbe una pagina sul sito e un profilo dedicato su una sua app personale. (più altre cose)»
«Ah wow è incredibile!»
«Sì. Per cui ora andrei avanti esponendole il costo di pubblicazione. Perché di solito nelle case editrici il costo di pubblicazione è molto alto, qui invece avrebbe un prezzo decisamente più basso.»
«Ah ma io sapevo che di solito le case editrici assumono autori senza chiedere la partecipazione alle spese.»
«Beh no solo alcune di quelle proprio grosse lo fanno e poi si è vincolati al contratto e non si può più pubblicare niente neanche su facebook.»
«Ah ok…»
«Dunque il costo è di 349€ (più o meno)»
«Ah beh, mi scusi ma io non posso investire questi soldi in questo periodo.»
«Eh sì immagino. Va bene allora le auguro buona giornata e la saluto.»
«Arrivederci.»

Anche la dott.ssa Benedetti mi ha richiamato, ma ho dovuto, ahimè, declinare l’offerta di pubblicazione.
Non ho dubbi sulla legalità delle offerte. Quello che non mi piace è lo strano giro che si finisce per compiere partendo dalla partecipazione ad un concorso e finendo per sborsare 300 bombe. Mi sento un po’ spiaggiato ti spiace? Trasportato oserei dire, attraverso mari oscuri da scafisti sconosciuti, pronti a gettare in mare i sogni di coloro a cui tendono la mano.