Ho aperto la tenda con sopra ricamati gli stambecchi e il Tovière se ne stava là, con la sua pappagorgia di neve e il piercing di funivia a guardarmi dai suoi 2700 metri come per dirmi “Ma cosa cazzo vuoi fare te”. Allora ho detto ad Andrea: “Io mi sa che oggi vado a fare una camminata”.
Lui pure ha voluto venire. Così ci siamo incamminati dall’uscio di casa in Rue de Val Claret ed oltre la strada, verso l’arrivo della pista da sci per farle il contropelo salendo a piedi.
Abbiamo provato sì a deviare in qualche fuori pista, ma la neve al ginocchio non rendeva così gradevole la salita.
Aggirata la pancia esposta al sole la vetta, e la cima sorella subito sotto, stavano ancora ritte sopra di noi come le tettine di Umberto Smaila in canoa.
Il versante in ombra diventava una rampa di neve battuta davvero poco adatta ai nostri doposci. Perdere l’aggancio voleva dire cadere e non sapere dove ci saremmo fermati. Per cui Andrea, più stanco, ha deciso di tornare. Io volevo salire, avevo deciso molto prima di partire.
Ho cercato il lato della pista e mi sono fatto strada nella neve fresca arrancando e impiegando molta energia. Dopo diverse pause, fatte con cadenza di circa quindici metri l’una dall’altra, ho iniziato a salire a quattro zampe, usando anche le mani per distribuire il peso ed affondare di meno, guadagnando in velocità e stabilità.
Seduto ad aspettare che passasse la nausea per lo sforzo contemplavo la vista. La Grand Motte a nord nascosta dalle nubi nevose; Tignes di sotto col suo sorriso di hotel; l’aureola arcobaleno del sole oltre la cresta.
Sono salito fino a guardarlo negli occhi, il sole. Oltre quella salita impietosa il dislivello tornava ad essere dolce. La pista finiva attorcigliandosi come un boa attorno alla cima.
Sono sceso con cautela in un continuo esercizio di concentrazione. Le montagne a poco a poco tornavano ad alzarsi.
Oggi i doposci erano ancora bagnati dal sudore e dalla neve. Per andare a lavorare ho dovuto indossare gli scarponi da trekking. Questi scarponi sono stati a riposo in una busta di plastica nel giardino di casa per sei lunghi mesi, dal mio ritorno dal Costa Rica.
Me li sono infilati dopo averli sbattuti ma lo stesso ho avvertito una piccola punta incontrare il mio alluce. Un piccolo oggetto appuntito, una resistenza debole. Mi sono sfilato la scarpa sentendo solo un ronzio. Una grossa vespa è uscita a respirare. L’ho portata fin qui da casa. E’ stata una settimana intera nello scarpone sopra il mio letto ed ora usciva.
L’ho messa fuori dalla porta ma né al paese né qui, dove nevica e i gradi vanno sotto zero, avrebbe potuto sopravvivere all’inverno.
Si è rannicchiata in uno dei buchi del tappeto dell’entrata, sapete quei tappeti anti scivolo fatti a maglia di buchi? Con buchi grandi alternati a buchi piccoli. La vespa è finita in uno dei buchi piccoli. Si è guardata intorno un poco, colpita dall’aria fredda. Con passo incerto è ceduta nel buco piccolo come una moneta da un centesimo, rannicchiandosi, e lì è rimasta.