30 giorni senza zucchero 9

Avrei preso lo Skytrain fino alla fermata Stadio/Science World, per andare a visitare quest’ultimo. Un museo interattivo bellissimo che può essere anche definito come un incredibile parco giochi per bambini dove la scienza è il tema di fondo. Innumerevoli esperimenti di fisica in cui salire, infilare le mani, giocare con l’acqua; ma anche scoprire il corpo umano, gli animali e l’ecologia. E seduto sul treno avrei pensato a qualche idea sciocca per allenarmi scrivendo qualche racconto. E c’era un’idea sciocca che mi divertiva particolarmente, l’ho trascritta e l’ho sviluppata segnandomi le cose che avrei voluto articolare in seguito. Ma poi chissà, forse la corsetta per attraversare la strada, o forse quando mi sono piegato per misurare la mia elasticità muscolare sulla pedana nel museo, fatto sta che più di un’ora e mezza dopo essere uscito dalla stazione, giunto il momento di rientrarci, in tasca non ho più sentito la presenza del mio foglio.

E sta bene, ma era un foglio, anzi, un gruppetto di fogli, che insieme formavano la dispensa dataci da Paula durante il suo workshop di mozzarella homemade, sui quali c’erano tutte le istruzioni. In compenso ho trovato nella mio taccuino un foglio con un’altra ricetta, scritta a mano da S., che prima di lasciare Vanderhoof mi ha regalato una masterclass di buns/cinnamon roll a casa sua. Penso di aver mangiato i miglior buns che ricordi da lei, appena sfornati e con il burro a sciogliervisi dentro, farciti del chili della campagna, così saporito e unico.

S. è la moglie di D., fratello maggiore dell’uomo che mi ha ospitato e per cui ho lavorato nel primo mese e mezzo qui in Canada, R. Siamo andati a casa di S. varie volte a recuperare le mucche con i cavalli e a separare i tori dal resto della mandria. Il loro modo di amministrare le nascite prevedere che solamente per due mesi all’anno, d’estate, i tori e le vacche convivano nello stesso pascolo insieme. In questo modo possono circoscrivere il periodo delle nascite l’anno successivo. Cavalcare in quei campi aperti dove sembrava la terra non dovesse finire mai, sotto cieli che erano l’universo, apriva gli occhi e il cuore ed il battito di Elvis sotto di me e il vento e l’erba battevano a ritmo con il mio. Lì è stata la volta, mentre io S. e C. scortavamo tre tori lungo la via del ritorno, che uno dei tre, nell’istante in cui S. e il suo Gomez hanno ridotto le distanze dalla spalla sinistra dell’animale, ha semplicemente scelto di prendere l’unica via che non consideravamo possibile potesse prendere, ha sradicato cinque livell di filo spinato su paletti a massimo cinque metri l’uno dall’altro, finendo dall’altra parte così, come se avesse dovuto tagliare il nastro di un traguardo, strappandoli come spaghi di cotone. Molte volte non ho percezione della forza di questi animali. Vederli usarla mi impressiona, udirli pestare il terreno mi incute rispetto, con quei colpi rimbombanti dellavoce della terra, della quale loro sembrano conoscere le armonie segrete.

Sull’altro lato del foglio la scaletta con i nomi di una gara di sorting del 19 aprile scorso con la calligrafia di R. I nomi delle persone che animavano le nostre sere al ranch arrivando e vivendo quel posto come fosse una casa. Questo mi manca molto qui, essere in un posto dove la gente ti considera uno del gruppo a prescindere, pur non essendo cerimoniosa, pur non cercando di interagire se non vuole.

Della campagna canadese, nel nord, ho imparato questo, che la gente è genuina. E qui giù mi sembra lo stesso, ma nella grande città le persone sono comunque più emulsionate, vicine ma senza mai entrare in contatto.

Mentre camminavo nel museo ho visto il ristorante Triple O’s e il menu degli hamburgers che proponevano. Ne volevo proprio uno. O uno snack. Ma anche no. Ed eccezion fatta per l’assaggio delle due focacce cotte oggi, una impasta con la biga di ieri e l’altra solo con lievito fresco, ho rispettato il mio voto mensile con onore. Non è troppo male arrivato a questo punto. Ma, soprattutto, benché ieri sera dopo la cena al ristorante mi abbiamo offerto due mini dolcini proprio insieme al conto e benché oggi abbia mangiato della focaccia di farina bianca e un po’ di uva sultanina, i miei gomiti vanno meglio. Le croste sono quasi del tutto sparite e la pelle è molto più elastica. E tutto senza creme. Questo significa che è la direzione giusta.

Pranzo: riso integrale con noci, grana e tonno; bun integrali con salmone affumicato, cetrioli con burro d’arachidi, pomodori secchi, olive, uva passa.

Pronti per la sveglia alle ore 1:50 di questa notte.

30 giorni senza zucchero 8

Ogni giorno mi vengono molti spunti su cose da scrivere, molte volte però non li registro in nessun modo. E’ come se cercassi di ritrovarmi qui di sera e vedere cosa riesco a mettere insieme ma senza farlo di proposito.

Non era mio proposito nemmeno quello di alzarmi svegliarmi alle 6:30 del mattino, dopo comunque undici, stupende ore di sonno. Dato uno sguardo all’ora e cambiata l’acqua al merlo ci ho aggiunto un’altra oretta. Suppongo ne risenta dall’attività settimanale. Ma non mi è dispiaciuto. Iniziare presto la giornata mi piace e ci ho accoppiato una bella colazione a base di fette di pane di segale, uova e prosciutto sbollentato, più una manciata di fragole. Ero veramente contento di pianificare la mia giornata così sono uscito… cacchio. Il muro alla mia destra è sottile quando una ventina di foglietti di carta igienica. Le risate smodate di M. e suo figlio J. mi accompagnano come la bizzarra colonna sonora di queste ore, insieme alle lontante macchine che sgassano in qualche zona di Vancouver fuori dalla finestra socchiusa.

Colazione: uova, pane di segale, prosciutto cotto, fragole. Pranzo: mele, uva passa, anacardi. Cena: cena di pesce, una birra, un bicchiere di vino.

30 giorni senza zucchero 7

Ottimo. M., la proprietaria della casa dove abito ora, è appena tornata dalla Cina e mi ha portato un incredibile copri tavolo in gomma specifico per i lavori di impasto e, soprattutto, un sacchetto pieno di dolci cinesi. Che sto guardando proprioadesso senza guardanre l schermo.,

E niente, gli trovo un posticino tranquillo nell’armadio, al di là della montagnetta di mutande, ben oltre il deposito di pantaloni; saranno nascosti come le ghiande degli scoiattoli, che dopo questi ultimi industriosi giorni di ricerca, da oggi sono già una rarità nei parchi. Me li immagino rannicchiati dentro i loro tronchi, in piccole casette ovulari con il loro malloppo di ghiande e noci tutt’attorno a preservarne il calore, arrotolati nella loro coda o magari abbracciati, scoiattolo e scoiattola, impegnati a darsi i bacini con quei loro movimenti scattosi. Chissà come faranno in uno spazio così piccolo. Lascerò queste caramelle e piccole tortine e dolcini agli arachidi in letargo allora. Se mi venisse voglia di dormire per i prossimi tre/quattro mesi, cosa non assurda, avrei delle provviste con me.

Ho aspettato il bus 153 in direzione Coquitlam centro per venti minuti, ma gli occhi mi si chiudevano e se l’avessi preso in questo momento sarei probabilmente nella doccia del Poirier Leisure Centre. Non ce la potevo fare oggi. Il venerdì è sempre il giorno più imprevedibile, quello dove devo ricercare forze e volontà nel profondo per finire la lunga serie di carrelli pieni di pani da buttare dentro e fuori del potente forno Macadams five decks. Un forno che ha già una quarantina d’anni sul groppone e sembra non aver voglia di fermarsi. Sa dire ancora la sua, non si perde d’animo – anche se ha qualche perdita e il deck numero quattro cuoce più lento degli altri. Un anno per un forno equivale a circa sette anni per noi umani.. o erano i cani che funzionavano così? Ma comunque è veramente vecchio. Viene dal Sudafrica e non riesco a immaginare in qualche assurda bisca sunsahariana O. lo abbia vinto a poker. E l’ho pulito per bene dopo il lavoro. Gli ho alzato la sottana e gli ho aspirato tutto il lerciume accumulato che, a una stima immediata, sarà stato lì da qualche anno.

Comunque non mi sentivo troppo male. Non come la settimana scorsa dopo il giovedì pomeriggio dal Dr. S., chiropratico di Coquitlam, che mi ha scrocchiato un pochino con il risultato di farmi passare due giorni dove mi sentivo completamente scarico. Anche ieri ci sono andato e lo stesso è stato per oggi, ma fortunatamente ho avuto il turno più corto della storia, solo sei carrelli. In compenso ho utilizzato il tempo guadagnato, quello della mattina dalle 8:00 in poi, momento della giornata che stavo dimenticando potesse esistere, per andare alla clinica di North Road a far visionare la mia verruca. Piccola piccola, sotto il piede, destro, una spruzzata di azoto litiquido, una ricettina per un veloce trattamento quitidiano trimestrale, sessntacinque dollari e via! Pronto per tornare a casa, dormire venticinque minuti e tornare al forno per tre orette di corso teorico non pagato, ma che ho veramente piacere di fare. E’ così. E ora, proprio prima di coricarmi, una veloce biga con la farina italiana, così c’è scritto sul sacchetto, per l’impasto di domani.

Ultima frase prima di andare a nanna, da O., di oggi pomeriggio al corso: “Siamo figli dei nostri genitori certo, ma prima siamo figli dell’universo.”

Colazione: pane di segale con prosciutto. Merenda a lavoro: mele e anacardi. Pranzo: Riso integrale con tonno, grana e noci; pomodori secchi, olive, focaccia integrale autoprodotta. Cena: pane di segale, olive, pomodori secchi.

30 giorni senza zucchero 6

Dopo il mio turno di ieri mi sono fermato in laboratorio con il mio capo per una sessione straordinaria di shaping. Insieme al mio collega D. abbiamo realizzato un impasto da tredici chili per la realizzazione di dieci baguette, dieci parisienne e dieci balls. O. mi ha mostrato come preformare e formare le varie misure di pane così mi sono cimentato. Purtroppo però oggi, dopo una notte nella cella per la lievitazione finale, i pani erano molto molli, “overproofed”, a causa della scarsa forza che gli impresso. La mia tecnica è molto acerba e poco efficace. Così, dopo averli cotti, i pani non sono cresciuti e hanno conservato le loro forme stropicciate.

Mi sono portato a casa quindici panini ed ho esperito quanto possa essere difficile, già a questo punto del percorso, mantenere la motivazione nel non assumere “cose buone”. Ho mangiato un panino intero con del burro d’arachidi e il rilevatore di stronzate sui miei gomiti sta già facendo muovere le mie unghie a discreta velocità. E’ la tentazione della disponibilità. Mi serve ancora un po’ di lavoro su questo aspetto.

Mentre scendevo la collina da King Edward Street questa mattina, sono passato come al solito di fianco alla torretta all’angolo nord-est di Mackin Park. Di giorno non si sente nulla, probabilmente a causa del traffico, ma a quell’ora, senza una macchina, nel silenzio e nel buio, sento la voce di uno speaker uscire dalle casse nelle parabole di plastica. E’ un gioco divertente per cui se ci si posiziona al di sotto di tali campane, che rimangono a un’altezza di circa due metri, per un fenomeno sonoro è possibile ascoltare la radio in modo estremamente nitido, come se si avesse una cassa vicino alla testa. Ed ogni mattina è sempre la stessa, inquietante presenza. Dimentico della stessa sensazione occorsa il giorno precedente, passo dal parco e mi accorgo di voci provenire dal nulla. Quasi subito mi ricordo di cosa si tratta, ma in quel quasi c’è un istante di riflesso escrementizio.

Sta per iniziare un’altra quieta serata. Me la vado a godere.

Colazione: pane di segale con prosciutto cotto. Merenda al lavoro: mele, anacardi. Pranzo: insalata con pomodorini, olive, avocado, pollo; lamponi; pane autoprodotto con burro d’arachidi.

30 giorni senza zucchero 5

Nel quarto episodio di Shetland c’è un personaggio che mi piace molto. E’ un tipo timido, schivo, vive isolato, con la barba e una vecchia casa senza niente attorno. Si chiama Magnus. E quest’oggi mi sento un po’ Magnus, qui a guardar fuori dalla mia finestrella con questo tempo così scozzese.

Non so se siano l’assenza di zucchero o semplicemente la grande stanchezza e una certa assuefazione al mio tran tran, ma mi sento un po’ mogio. Ed è strano perché indago dentro di me e mi scopro ancora carico e volenteroso di avventure, ma forse sempre più consapevole dello sforzo che necessitano. Il che mi fa amare la mia finestrella, la sedia alla scrivania e tutto quel bagnato là fuori.

Cerco sempre di tenere presente che una delle motivazioni che mi hanno portato dove sono è la ricerca. Mi voglio vedere in queste esatte condizioni, capire quanto io possa brillare autonomamente di quella luce che la mente sa produrre quando rivolta verso se stessa, verso la sua natura; allo stesso tempo valutare l’ambiente e il susseguirsi degli eventi nel suo eterno mutare di forme ma non di significati. E posso tranquillamente dire: la mentre condiziona l’ambiente, non viceversa.

La cosa più difficile non è trovarsi soli, a fronteggiare la marea imprevedibile di volontà altrui, a preservare sana la propria, a decidere una nuova direzione, ma accettare la vulnerabilità che questa condizione comporta. Ed è quando mi riconosco come tale, comune e vulnerabile, che mi accorgo che tutte le volte che mi sento triste, arrabbiato, confuso, disorientato, debole, impotente, impaurito, è perché mi sono dimenticato della mia essenziale vulnerabilità.

Guardo a Magnus e vedo il gatto, od un pesce d’oceano, il piccolo criceto in una gabbietta d’appartamento di Singapore: esistenze semplici. Lentamente il turbinio interiore che gira come un motore in folle si placa; non muto espressione – il mio viso credo rimanga la stessa pergamena di tentativi abbozzati – ma mi resta quell’impasto che è stato lavorato troppo, distrutto nella sua struttura interna, appassito, bisognoso d’essere rigenerato.

Check dermatite: con la sua calma sta diminuendo. Le chiazze prurigginose e secche sembrano riacquistare elasticità. Ma per oggi ancora mi hanno fatto grattare. Interessante è come abbia, su entrambe le braccia, una crosticina rotonda, singola, esattamente nello stesso punto, speculare, nella piega del gomito in posizione esterna. Entrambe prudono uguale.

Colazione: pane di segale con prosciutto cotto. Merenda a lavoro: mele, banana, anacardi. Pranzo: insalata con pomodorini, cetrioli, olive, avocado, riso integrale con tonno, grana e noci, bun integrale.

30 giorni senza zucchero 4

Dopo aver passato praticamente tutto il pomeriggio a implementare un foglio di excel per il calcolo dei dosaggi nelle ricette, finisco con la giornata con un impasto.

Questa mattina sono rimasto alla bakery dopo il lavoro perché Darryl e Olivier mi hanno iniziato all’arte del pane. Abbiamo mixato una pasta base e speso diverso tempo sul lavoro di calcolo delle idratazioni, particolarmente delicato nel caso in cui il prodotto da realizzare preveda l’impiego di un prefermento. Ma è stato tutto molto interessante e non ho potuto fare altrimenti che continuare il lavoro tornato a casa.

Avevo in programma di andare a nuotare finito il turno, ma l’orologio è stato impietoso e ho dovuto declinare, tornando diretto a casa sotto la pioggia e in mezzo agli insulti di una buonanima su un pickup mentre camminavo lungo la strada.

Tra ieri pomeriggio e oggi ho scoreggiato molto. Come quando mangio cose molto meno nutrienti ma ricche di zucchero. Inoltre la dermatite è ancora lì, stabile, come quando non vuoi andartene dalla festa quando la musica è già finita. O magari sono io che non la sento più e non si tratta dello zucchero. Il ritmo di vita è frenetico e sento molto lo stress fisico. Devo capire se si tratta di assestamento da parte del corpo o di altro.

Colazione: pane di segale con prosciutto. Merenda a lavoro: mele, banana e anacardi. Pranzo: trancio di salmone, minestrone, lamponi, cetrioli, buns integrali, yogurt greco.

30 giorni senza zucchero 3

Esattamente fino a quindici secondi fa stavo pensando “Cavolo ho mangiato frutta, verdura, pesce, prosciutto a pranzo e non sento fame”. Ora invece sì.

E’ stata una giornata strana, lunga, faticosa. La prima sveglia lavorativa della settimana è terribile. Alzato con un vago magone a metà tra la tristezza e la frustrazione, ho ingurgitato la crepe preparata ieri sera con una cucchiata di burro d’arachidi spalmato sopra. Guardavo la crema adagiata sulla superificie bucherellata della crepe e mi vedevo su qualche spaggia, spalmato a terra nello stesso, disarticolato modo. Non lo sapevo ancora con esattezza ma necessitavo di una netta closure, verso le vicisitudini sentimentali degli ultimi tre anni.

Da una settimana a questa parte inoltre, proprio da quando sono andato per la prima volta dal chiropratico, i fastidi alla schiena sono aumentati e, verso la fine della settimana scorsa, anche un’insidiosa infiammazione all’interno coscia ha dato manforte alla cupaggine generale. Per cui stamattina ho deciso che, mentre per infornare il pane avrei usato la solita tecnica: mano destra che dirige e mano sinistra che sostiene, per sfornare avrei cambiato lato, usando la mano sinistra per dirigere la pala e la destra per sostenerla nel suo baricentro. Il risultato è stato un notevole innalzamento dei pani caduti dal carrello di legno ma, con mio grande stupore, ho retto magnificamente alla frustrante ripetitività di quei fallimenti. Consapevole che sia necessario ripetere un’azione molte volte prima di poterla padroneggiare, faticando molto più del solito e mettendoci più tempo, ho continuato fino alla fine del turno diversificando i movimenti. Questo per dare sollievo alle mie catene muscolari, impegnate quotidianamente nello stesso identico movimento unilaterale per molte ore.

Ma ogni giorno, tagliando e infornando migliaia di pani, è come entrare nella quiete di un mantra. Ad un certo punto la mente si astrae e ogni movimento diventa automatico, completamente dissociato dalla volontà. In questa dimensione mi sentivo strozzare dall’arcipelago di pensieri che mi si erano radunati in testa e così, senza forzarne nessuno e senza nascondermi, li ho lasciati fluire, liberi di esistere, e la chiusura è arrivata. Prima dentro di me, sottoforma di decisione consapevole, poi nei fatti, per cui l’ho agita poco dopo.

Così questo pomeriggio sa di amaro ed è un po’ vuoto. Ma è il giorno del ringraziamento qui in canada, questo 14 Ottobre, ed io mi sento dentro un grande Grazie. Per tutto quello che è stata la nostra storia, nel bene e nel male, e per tutto quello che ho oggi, per quello che sono, per quello che è la Vita. Forse anche per la mia dermatite, che se non fosse per la quale, forse, non avrei mai iniziato questi 30 giorni senza zucchero, né questo blog, né questo viaggio.

Sì, da qualche tempo a questa parte ho fatto la pace con la mia dermatite. E credo che, per quella strana e difficilmente spiegabile, ma concreta omogeneità di spirito e corpo, questo abbia significato il più grande cambiamento. La maggior parte del tempo che ho passato a documentarmi sulla dermatite è stata dedicata alla comprensione del fenomeno, senza paura di sconfinare in campi astratti e sconosciuti. Ho raccolto tutte le informazioni che ho trovato plausibilmente collegabili in tutte le discipline e, a poco a poco, in diversi anni devo dire, mi hanno portato a cambiare idea sulla mia pelle, sulla sua funzione, sulla considerazione che ne ho.

Eliminando lo zucchero ho iniziato a grattarmi di più sembra. Ma oggi è stato diverso. In particolare da oggi pomeriggio in avanti mi sono grattato meno. Le ultime crosticine si stanno riassorbendo. Mi sono sentito parecchio stanco per cui, tornato a casa dopo mangiato, mi sono concesso di chiudere gli occhi seduto sul letto, mentre di sottofondo un calmo episodio di Shetland andava, con il suo ritmo tranquillo e i paesaggi scozzesi che amo che cambiavano scena dopo scena.

Ho deciso inoltre di concentrare gli sforzi sulla produzione di un pan-pizza integrale con biga di mia produzione, che voglio realizzare per controllare il processo produttivo ed essere completamente sicuro di non avere nessuno zucchero all’interno, e anche per trovare una buona preparazione a questo tipo di lievitato integrale che mi piace particolarmente e mi stimola.

Colazione notturna: crepe di sole uova con burro d’arachidi. Merenda mattutina: 2 mele, banana, anacardi. Pranzo: minestrone, fragole, lamponi, tortilla integrale con yogurt greco e salmone affumicato, una fetta di prosciutto cotto, un bun intregrale, cetrioli freschi.

30 giorni senza zucchero 2

Scendevo nel seminterrato e mi sentivo vagamente Kevin McCallister, che immaginava la stufa della sua cantina prendere vita e trasformarsi in un mostro terrificante.

Scendo uno scalino alla volta gettando subito lo sguardo al cestino amministrato da D., che abita in una stanza nel seminterrato. Faccio in modo di muovermi il più silenziosamente possibile per cercare di individuare movimenti molesti. I topi con cui condividiamo la casa sono coinquilini tranquilli e discreti, ma sentirli operare industriosamente, a volte anche in gruppetti di tre, mette una certa irrequietezza.

Il cestino è aperto, con un grosso e succulento torsolo di mela addentato proprio lì in cima, in bella vista, facilmente inondato dalle correnti d’aria. La strategia di D. è quella di lasciare apposta gli avanzi in mostra, così che possa capire se un topo è passato o meno guardando se il cibo è stato mosso. Personalmente non condivido questa strategia.

Temo inoltre che J. abbia sgraffignato uno dei miei cetrioli. Ho notato la capocchia tagliata vicino all’acquaio e sono abbasta sicuro che nella confezione ne manchi uno, in quando il primo è stato consumato da me.

Devo dire che in questa casa, in questo momento storico, c’è una sorta di miscuglio eterogeneo di esistenze. Viviamo paralleli, ci incrociamo poco. Il bagno è un allevamento incredibilmente produttivo di ragni e faccio molta fatica a capire se anche la mia carta igienica venga usata da qualcun altro oppure no. In tutto questo cerco di impastare e provare nuove ricette ogni volta che posso. Al momento sto anche coltivando due paste madri, una ricavata da uno starter di uva passa e l’altra da della farina di segale. In particolare nei giorni liberi impasto. E’ qualcosa che mi chiama forte e che al tempo stesso mi dà pace.

Oggi è stato il mio secondo giorno libero, domani sarà la Festa del Ringraziamento qui, tutti i negozi chiusi ma non la produzione del panificio, quindi tra poche ore sarò di nuovo all’opera. Ho cercato di riposarmi il più possibile tra ieri e oggi, ma la schiena è abbastanza incriccata e ho un principio di pubalgia che sento di meno ora, ma che se ne esce ogni volta che mi chino. In compenso questo secondo giorno senza zucchero non è stato male. Mi sono sentito un po’ annebbiato durante tutto il giorno, le braccia mi hanno prurito tutto il giorno e direi che è strano visto che non ho assunto né zuccheri né grassi e ho fatto solamente due pasti a distanza di otto ore l’uno dall’altro.

Colazione: crepe di sole uova e uva. Pranzo: minestrone, petto di pollo, lamponi, fragole, anacardi, pane integrale, cetriolo.

30 giorni senza zucchero 1

La mappa sul mio corpo è molto chiara. Gli eczemi mi conducono alla semplice verità che non ho problemi a decifrare, ma che è così difficile da comprendere. All’interno del percorso di vita che sto facendo è naturale e scontato trovarsi, prima o dopo, a dover agire sui fattori concreti che incidono sul mantenimento e sulla cura dell’organismo. Primo fra tutti il cibo. Per me però, finora, non è stato il primo.

Derivo da un’educazione e una cultura nelle quali il cibo è considerato un oggetto sociale, un qualcosa di religioso. Il pane e il vino, la carne e il sangue di Cristo. Non esiste nulla che venga considerato in modo così alto e viscerale al tempo stesso, così essenziale e penetrante. Ma dal momento in cui ho deciso di provvedere personalmente alla mia cura spirituale, necessito di disgregare tutto ciò che di più pericoloso costituisce la nostra realtà: la scontatezza.

La prima cosa scontata è che, per quanto io ne scriva puntando il dito, la scelta è mia. Ma mi impaurisce. Tradotto in parole povere: mangio di merda ma cerco sempre scuse per continuare. Scontato no? Ma non trovo nemmeno giusto prendermela con me stesso. Ogni persona ha tempi e modi diversi. Non solo, ma quel discorso che riguarda il cibo come oggetto sociale e religioso funge anche da potente leva sulle nostre abitudini, sulle nostre decisioni e sulle nostre paure. Come poter dire di essere veramente liberi se ci è stato insegnato solo un modo di pensare?

Per quanto riguarda me, trovarmi in Canada, ora, con lo stile di vita che faccio e poter condividere qui i miei pensieri, rappresenta un momento adatto a sviluppare nuove visioni di me. Vorrei rendere pubblico ciò che mi spaventa, perché mi sembra un modo adatto al mio “qui e ora” per dare un forma a ciò che non conosco, e perché mi può aiutare.

Da quando cerco di fare quello che non ho mai fatto per avere quello che non ho mai avuto, l’idea di eliminare i cibi dannosi dalla mia dieta è sempre stata presente dentro di me. Ho passato anni a provare diete diverse, cicli di cibi vari, ma sono sempre tornato al punto di partenza. Era come se lo sforzo fosse troppo grande, come se avessi bisogno di tutto quello di cui non potevo fare a meno.

Su internet ci sono molte persone che hanno affrontato i “30 giorni senza zucchero” ed io vorrei fare altrettanto. Mi stimola poter sapere come mi potrei sentire non avendo più craving da dolci, essere meno dipendente dal cibo dannoso, scoprire gli effetti sulla mia pelle, sul mio intestino, sul mio essere presente.

Oggi è il giorno 1. Ho fatto una cosa terribile per iniziarlo. Ho svuotato nel cestino un vasetto di maionese. Quelli che mi conoscono sanno cosa può voler dire una cosa del genere per me. E’ tipo un prete che bestemmia durante la consacrazione, o il suicidio rituale giapponese; è tipo sedersi in curva dell’Inter con la maglia del Milan. Così magari non sembrerà niente di particolare, ma l’ho sentito come svuotare qualcosa di interiore. Il brivido che mi ha percorso la schiena non è stato causato dal mio amore per la maionese, ma dalla mia convinzione che il cibo è sacro e non deve essere sprecato. E’ un messaggio che ho lanciato al me stesso profondo, quello più selvatico e istintivo. E da come mi sento ora credo sia veramente arrivato.

Il mio stile di vita, da quando abito a Vancouver, è un po’ strano e se da una parte può aiutarmi, dall’altra mi sottopone a sforzi fisici e mentali non da poco. Lavoro come fornaio e il mio turno inizia alle 2:30 del mattino. Per le otto, nove ore successive inforno pale da quindici chili di pane in un forno a platea di cinque piani, fino alla fine del pane quotidiano. Torno a casa e non vedo le sere, andando a letto tra le 19:00 e le 20:00. Questo fa in modo che io eviti accuratamente molte occasioni sociali, facilitandomi nel dover scegliere ogni volta di non mangiare cibi squisiti e, soprattutto, gratis (per me la gratuitià del cibo è il miglior condimento), ed ho il tempo di cucinare e preparare la roba che mangio. Ma dall’altro lato è estremamente provante a livello fisico e l’alimentazione necessità di essere estremamente ben bilanciata.

Non so bene cosa aspettarmi eliminando gli zuccheri, non so se dopo questo mese ne mangerò ancora oppure no, ma sicuramente so che starò di merda per i prossimi giorni.

Consultando i vari documenti sulle diverse esperienze dei 30GSZ (30 giorni senza zucchero #30GSZ), è possibile notare che questo regime è stato interpretato in modo diverso da ognuno: per cui per alcuni si potevano mangiare carboidrati e latticini, per altri non si potevano mangiare invece miele e frutta, per altri ancora invece non si mangiavano carboidrati ma si frutta e frutta secca. Io ho deciso di utilizzare il metodo presentato in questo video, un po’ perché mi sembra il più ben fatto a livello di preparazione e conduzione dello studio, un po’ perché, per la mia condizione fisica, mi sento di voler e di dover preferire una dieta senza carboidrati da farinacei. Inoltre c’è anche questo fatto che, mentre il pane e il vino sono produzioni, lavorazioni di ingredienti naturali, la carne e il sangue, le originarie fonti di cibo, non lo sono. Come se nei secoli fosse stata costruita un’alimentazione fisica e spiriturale, sostituendo quella originaria.

Ma come ho detto, lavoro in un panificio. Ogni giorno qualcuno dei miei colleghi mi offre qualcosa. Sarà ancora più difficile. Utilizzare il blog per documentare il mio percorso è qualcosa che sento potrà aiutarmi a mantenere la direzione quando sarò troppo annebbiato e stanco.

Stamattina mi sono svegliato grattandomi il braccio. Nell’ultimo mese la dermatite è tornata in modo abbastanza amichevole, ma comunque fastiosa. Dopo questa prima giornata ho come un feedback dal mio corpo che sembra dirmi “Oh che cazzo fai? Dammi la roba!”, come se ci fosse rimasto male. Mi sono grattato abbastanza tutto il giorno, probabilmente è l’effetto del gelato e delle ultime grassate che ho mangiato l’altro ieri.

A pranzo: minestrone (olio, sale, cipolle, carote, patate, cavolfiore, porro, pomodorini) e tortilla con yogurt greco e cetriolo. A cena: wrap di pollo e verdure.

Dermatite atopica: il viaggio – pt. 3

Mi affascina molto il nomadismo, per cui sto cercando di saperne di più, anche praticandolo un po’. A metà tra la ricerca sociologica sul campo e la narrativa geografica, l’esperienza di studio che sto portando avanti vuole descrivere e approfondire l’impatto di specifiche “condizioni di variabilità”, le chiamo così, sulla mia personale cosmologia. Come le scelte di vita cioè, particolarmente grandi e operanti nel lungo termine, modificano il nostro modo di essere e di pensare in molteplici ambiti: culturale, religioso, psicologico.

Con condizione di variabilità intendo una specifica situazione o tendenza entro la quale un soggetto agisce e modella la propria realtà in funzione della realizzazione delle proprie aspettative. Questo concerne i processi decisionali, relazionali e mentali. Si pensi all’idea di stabilità: un soggetto può programmare obiettivi, personali e lavorativi, in funzione del raggiungimento di una condizione di stabilità adatta e definibile dal soggetto stesso. A livello descrittivo occorre però precisare, al fine di chiarire il significato dell’oggetto d’indagine, che il termine stabilità rappresenta solamente una tra le condizioni di variabilità. Esse sono molteplici, diversamente preferibili e soggettivamente consapevolizzabili.

In pratica, stabilità e instabilità, sono allo stesso modo condizioni di variabilità. Sono entrambe “scelte di vita” potremmo dire. E’ qui che punto la mia lente e voglio cercare: è possibile preferire un orizzonte di instabilità e provvisorietà nella propria vita ad un percorso di stabilità e sedentarietà? In che modo la realtà muta o, meglio, in che modo il soggetto muta nei confronti della realtà? Quali risorse vengono attivate? Allora per rispondere a queste domande devo per forza entrare nel pratico della ricerca: è necessario creare e preferire specifiche condizioni di variabilità, nel mio caso provvisorietà e instabilità. Sento che questo processo interiore, di mutamento spirituale e culturale, mi richiede il massimo sforzo nella consapevolizzazione, al fine di poterlo rintracciare e descrivere.

Trasformo allora esperienze usuali in strumenti di ricerca: il viaggio, il lavoro, lo studio di una lingua, l’esposizione a una differente cultura; smettono di essere l’obiettivo dell’esperienza e diventano strumenti al suo servizio, pronti ad essere cambiati. Tale processo di cambiamento propelle se stesso e, quale risultato implicito, inevitabilmente mi costringe a richiamare risorse personali ed esterne nuove o poco considerate in precedenza.

Questo sistema rappresenta la mia personale cura spirituale. La cosa più interessante in assoluto però è registrare che al mutare interiore muta anche il corpo con le sue reazioni.