Lo skyline della collina del Surrey, in questi tramonti rossi d’Ottobre, taglia fuori tutto il mondo ulteriore; ti convince che oltre di esso non vi sia più nulla e puoi stare lì a guardarlo fino a mescolarsi alla notte, catturato dalla promessa di un inesplorato. Wondering about planet Mars and his lands… terre desolate di una desolazione così naturale e lontana, distaccata, potente, completamente al di fuori della portata di ogni uomo… terre inviolate se non dal vento.
In questi ultimi due giorni ho avuto modo di pensare molto a me verso gli altri. Al modo in cui la mia mente stravolge l’immagine di se stessa e fa sbilanciare il focus all’esterno, al giudizio altrui, al bisogno di non rimanere da solo. Convengo che dev’esserci un che di naturale in questo, vivendo da solo e facendo fatica a vivere i tempi sociali a causa dei miei orari di lavoro. Ma la mia pelle cambia quando cambio il focus: e se prendo atto di ciò, se anche rimango in casa ma facendo compagnia al me nostalgico, non è la situazione che cambia, né quello che provo, ma inaspettatamente cambia tutto. Così lo sguardo passa da quel punto indefinito fuori dalla finestra alla lista delle priorità; dall’immagine di me a me.
E’ come mangiare lo zucchero, una volta assuefatti, smettere non solo diventa difficile ma non è nemmeno qualcosa che si possa pensare fattibile, semplicemente perché fa parte del solido strato di certezze che compongono la quotidianità.
Colazione: pane di segale con prosciutto. Merenda: mele e banana. Pranzo: broccoli, fagiolini e pollo; salsa olandese, pickles, olive, sfoglie di patate dolci, uva.
Questa mattina sono uscito dal lavoro prima delle 8:00, che è una cosa sensazionale. Non che sia completamente contento, visto che mi pagano a ore, ma lo ero abbastanza da non voler rimenere chiuso nello stabilimento più del tempo dovuto. Oltre la gobba della discarica il giorno nasceva e O. era uscito dall’ingresso urlando il mio nome prima che fossi troppo lontano per sentirlo. Nella sua visione, la mia permanenza in Canada sarebbe preziosa ma io, in quella bella luce del mattino, respirando l’aria fresca, constatavo che più le cose sembrano mettersi per il meglio, più cioè una certa calma cosmica sembra volersi sedere con me sul divano e abbracciarmi stretto, e peggio mi sento. Immagino sia il motivo per cui ho scelto di venire a vivere in città; immagino sia il significato del tragitto compiuto finora, l’arrivo attuale indicato dal mio sentire: misurarmi in questo contesto.
Non credo di poter fare altrimenti. La mappa sul mio corpo parla chiaro, perché nelle ultime settimane è come se avessi provato a intraprendere diverse strade, nessuna delle quali conosciuta a priori, e per ognuna di esse, ad un certo punto, la pelle ha espresso il proprio verdetto di inadeguatezza. Il corpo è onesto, se il luogo, il momento e le persone in cui mi trovo nel mio “qui e ora” sono quelle giuste, non ha niente da ridire. Se qualcosa non va, posso iniziare a grattare con furore. Per cui dopo queste prime due settimane di sensibilizzazione allo zucchero (che è sicuramente il primo risultato che si ottiene), comprendo che diventi inutile tornare di nuovo a cercare gratificazione nel cibo durante i momenti difficili, durante gli spostamenti in pullman in pomeriggi stanchi e solitari.
Eppure, anche se certi giorni sono pennellate di nostalgia, possiedo sempre una visione generale per la quale mi vedo incline a fissare i nuovi punti di inizio per il mio lavoro spirituale. Dopo i mesi passati nei Pirenei avrei voluto poter vivere in città con la stessa pacatezza ed armonia che ho potuto conoscere nei remoti paesi di montagna continentale; andare ogni giorno a lavoro, svegliandomi molto presto, ripetendo le stesse cose all’infinito, affrontando i problemi della quotidianità con fiducia e spirito critico. E lo sto facendo.
E poi ci sono io. Io che mi guardo negli occhi cercando me stesso e, trovandomi, dico: alright. Sono momenti in cui le canzoni, YouTube, le informazioni, la velocità, le tecnologie, gli affari, la stanchezza, i sapori, i problemi, il prurito, le ragioni, gli altri, vengono riconsegnati al loro piano di realtà, messi un poco fuori dalla finestra a scolare, mentre chiudo gli occhi e assaporo ciò che rimane, l’essenza filtrata tra le dita delle mie mani, e il cuore si placa, si distende e si alliscia come un impasto maneggiato sapientemente.
Un morbido soriano cercava le mie dita attraverso le sbarre della gabbietta e si rotoloava spalmando il muso contro di esse. Lo accarezzavo sul collo, sulla testolina, ovunque potessi raggiungerlo oltre lo sportello. Sembrava in buona salute e sono sicuro che le ragazze dell’Animal Shelter di Coquitlam sappiano il fatto loro. Mi sarebbe solo piaciuto poter fare un po’ di volontariato lì, ma da qualche tempo non accettano più volontari. Per questo mi hanno dato un foglio con riportati tutti i contatti delle strutture che invece accolgono volontari. Ho molta voglia di tuffare le mie mani nel pelo di qualche cane o gatto, con i quali avevo un rapporto quotidiano nei ranch dove lavoravo. Mi manca molto. Questo e le montagne, che sembravano ritagliate nel crepuscolo oltre le colline della città di oggi pomeriggio. Non sono più che un quadro attaccato alla parete, che è la cosa che mi spaventa di più.
Colazione: pane di segale con prosciutto. Pranzo: fagiolini e broccoli lessati, pollo, pomodorini, olive, burro d’arachidi, focaccia autoprodotta, uva.
C., la ragazza che lavora nello shop del forno, è venuta in reparto produzione a dirmi “Questi sono di sabato e non li posso vendere, potete portarli a casa.” Mi stava cogliendo un principio di iperventilazione vedendo i quattro sacchetti pieni di croissant, pain aux chocolat, pain aux raisins…
Nelle successive cinque ore, chino sulla mia pala ad infornare, ho molto meditato sulla decisione che avrei preso riguardo il destino di quelle pietanze. Un sacchetto è partito con me e non c’è mica tanto da girarci intorno: me li sono mangiati. Uno per sorte. Erano un po’ stantii ma avevano ancora il loro perché, soprattutto pociati in un bicchiere di latte. Non ho nulla da aggiungere. Niente domande grazie, non rilascio interviste.
Ancora una volta, la combinazione cibo+gratis ha avuto la meglio. Credo che mai, nei decenni di sfide passate, vi sia stato un avversario tanto temibile e subdolo come quello di oggi. Ma è ovvio, più alzo la l’asticella e più ostiche si fanno le battaglie. Anche se, risconosco, non vorrei si trattasse di battaglie, di combattimenti, di opposizioni. Vorrei poter scivolare attraverso ognuna di queste situazioni, guardarla dal finestrino mentre continuo a interessarmi di ciò che lo spirito mi consiglia, senza troppo dover dar bado a quel richiamo. Diciamo che questa tentazione sta a me come le sirene stanno a Ulisse. Non sono ancora pronto, molto lavoro ancora si richiede.
Inoltre, era molto più facile evitare di consumare i panificati che produco a casa quando questi non venivano; ma ora che sto mettendo a punto le ricette giuste per il tipo di forno (parola grossa per definirlo) che abbiamo qui, anche questo diventerà un altro punto importante a cui fare attenzione.
Colazione: pane di segale con prosciutto. Merenda al lavoro: mele, banana. Pranzo: pane autoprodotto, salmone affumicato, croissant, yogurt greco, pickles, olive, pomodorini, latte.
Correvano a perdere il fiato, lanciando nel vento la terra che vibrava, fianco a fianco in un unico spasmo collettivo. Perché anche se montano selle di colore diverso, anche se i loro fantini gareggiano per vincere, loro corrono e basta. Attualmente, gli sport equestri sono le uniche attività nei quali l’animale sembra godere di più considerazione dell’uomo. Una rivincita inutile per la brutalità della sfida.
Per la prima volta sono stato a vedere le corse dei cavalli, con C. e i ragazzi giapponesi. Subito mi sono visto Charles Bukowski aggirarsi attorno ai bookmakers reggendo una birra. Devo fare altrettanto! Così ho scommesso 5 dollari su Jack Don’t Drink, numero 1 della prima gara.
Mentre aspettavo la partenza appoggiato al recinto lungo la pista, un pensiero piccolo piccolo ma molto subdolo mi è entrato in testa: ero convinto che siccome il cavallo su cui avevo puntato aveva le probabilità più alte di vittoria, se avessi scommesso cento dollari nei avrei vinti quattrocento. E l’ho pensato così, senza volerlo, è emerso da qualche substrato cerebrale adibito a promuovere la dipendenza dal gioco d’azzardo.
I cancelli si sono aperti senza che me ne accorgessi e in pochi secondi erano già passati, svaniti oltre la curva, elettrizzati dai frustini con le narici divaricate a succhiare aria. Jack Don’t Drink guidava a metà percorso ma dalle retrovie il numero 4 di Dakati si faceva avanti e rosicchiava centimetri. Scomparsi dietro la baracca situata al centro del campo diventavano solo un flebile tremore, ma all’improvviso eccoli sbucare, nere frecce slanciate, e infilare la curva finale, inarrestabili eppure controllati dai piccoli uomini dipinti sulle loro schiene. Pura apnea il rettilineo finale, negli occhi pazzi dei cavalli e in quelli degli spettatori con i biglietti in mano, pazzi anch’essi di un’estasi infinitesimale. Dakati taglia il traguardo davanti a Jack ed io non mi esimo dal prendere il mio biglietto e strapparlo a platealmente a metà.
Dopo la corsa mi sono sentito strano. Vederli correre, sentirli dentro, mi ha scatenato un mescolio di emozioni contrapposte e simultanee. Come se tutto quello spettacolo, la grandiosità del velodromo, l’atmosfera di eccezionalità fossero grandiose, ma in fondo ci fosse qualcosa di semplicemente non buono.
C. Ha sentito lo stesso e il suo sentire ha qualcosa di potente, di antico. Su tre corse ha azzeccato tre volte il vincitore e poi abbiamo parlato, di come anche io stia cercando di allenare la mia percettività e di come lei vi stia riuscendo. Sentire col corpo significa andare quando il corpo ti chiama verso qualcosa. Ma è un momento molto breve, se lo perdi è andato per sempre.
Ci siamo salutati alla stazione della 29esima strada e poi ho proseguito fino alla costa sud ovest della città, per visitare la Southland Heritage Farm e i suoi cavalli. E sebbene abbia speso circa tre ore tra andata e ritorno, sono contento di esserci andato. Ma non ho accarezzato i cavalli. Non si avvicinavano. Quasi non si muovevano. Parevano esausti della presenza dell’uomo. Così dopo qualche minuto dal mio arrivo sono ripartito.
Ho scritto il resoconto di oggi seduto sul pullman, mentre il telefono mi sobbalzava tra le mani nei tratti più movimentati e l’afrore del mio vicino di posto mi ricordava tanto l’odore dei cavalli. Mi manca l’odore della stalla, del pelo sudato, mi manca anche l’odore della merda, che è stata la prima vera cosa con cui facendo la pace ho iniziato a guarire.
Colazione: fette di pane autoprodotto con uova e prosciutto. Pranzo: bistecca con salsa di funghi, uova strapazzate, frutta.
Mi sono bloccato per un momento, mentre il vento era freddo e il sole faceva quel che poteva per scaldarci, a fissare il grosso albero giallo. Tra tutte le altre piante sempreverdi, lungo il sentiero sulla spiaggia di Spanish Banks ce n’era uno caduco e il suo giallo risaltava su tutto. Era bello. E da quello ho iniziato a contemplare la sabbia, gli amici che giocavano con me, l’oceano poco più in là, il frisbee che volava. C’erano dieci gradi ma eravamo a giocare in spiaggia, a piedi nudi, e non potevamo fare a meno di ridere e stare bene. Credo che ci debba essere una grossa presa di responsabilità nel decidere di non poter fare a meno di stare bene.
Sento una voce dentro che mi spinge ad andare a mangiare robe zuccherate. Bastarda. Sono due giorni che l’insegna di Boston Pizza capita sulle mie strade. Oggi stavo seriamente per cedere. Inoltre, sì, il modo migliore per evitare di incorrere in tentazione è quello di allontanare il più possibile le fonti di pericolo. Ma nelle mie mattine mi trovo a dover passare dieci, quindi, venti volte davanti a vassoi di croissant e pain aux chocolat appena sfornati che potrei prendere così, for free. Ogni. Santo. Giorno. Lavoro con questo odore che si infila nelle mie narici come le dita di un bambino piccolo in una presa di corrente. In questo esatto momento è entrato in atto in me quel meccanismo per cui alla rinunzia corrisponde una fase di svogliatezza e cupore. Apaticità. Ma tant’è, imparare a conoscerla e a conviverci è senza dubbio qualcosa che mi manca, qualcosa di nuovo.
Colazione: crepe di sole uova con banana. Pranzo: bistecca di manzo, pickles, olive, insalata, sfoglie di patate dolci, uva, fragole. Cena: banana, uva, fragole.
La posso vedere, chiaramente delinearsi, la routine della mia Vancouver. Credo che ci volesse una città perché potesse succedere. I posti attorno a casa dove fare la spesa, il parco dove andare a correre, il sempre meno frequente uso degli orari per beccare i bus. Ed è piacevole. Come risulta piacevole una cosa nuova, fresca, alla quale non si è abituati. Ma nello stesso momento in cui correvo l’anello di Mackin Park, dentro di me una voce diceva “Sì, fino al momento in cui sradicherai tutto di nuovo, per un altro luogo, un altro inizio da zero, nuove difficoltà”. Perché beh, pensavo fosse difficile per me vivere nella routine, sopportarne il peso quotidiano di un tempo che, a posteriori, si rivela leggero, volatile, del quale non rimane traccia. Invece no, è sempre comodissimo lasciarsi andare al ritmo costante dell’incedere del tempo, quando questo sia scandito da attività ripetitive e familiari. Per questo se dovessi scegliere tra sradicare e mettere radici, alla luce di quella che è stata la mia vita finora, opterei ancora per la prima.
Mentre Nik Palmer parlava ero completamente rapito, invece nei momenti morti mi si chiudevano gli occhi. Nik Palmer organizza corsi di pane a Chinatown, con una lunga barba riccioluta e i capelli brizzolati rasati ai lati. Come tutti i maestri, è molto severo sulla regola principale della panificazione: per avere un buon pane è necessario seguire la ricetta alla lettera. Ma per il resto, quest’uomo dall’accento nord-inglese, ama rendere facile e incisivo quello che insegna, come solo l’esperienza di anni sa fare. Siamo passati attraverso la preparazione di un pane di farina integrale con lievito madre cremoso di farina di segale in tre ore ed è stato stupefacente veder ridotto il processo di creazione in così poco tempo.
Il pane che ne è uscito era fragrante e assolutamente ben strutturato; la mollica presentava una bilanciata alternanza di bolle grosse e bolle piccole in un ventaglio di profumi. Quelle bolle nascono dall’attività del lievito quando si nutre dei carboidrati contenuti nella farina, altresì detti zuccheri, altresì detti amido. Come sostanza di scarto, lo stacanovista saccharomyces cerevisiae, produce CO2, cioè anidride carbonica, e alcohol. Sono queste sostanze a far gonfiare le bolle, ossia le cavità contenute dalla struttura di glutine creata grazie alla forza meccanica dell’impastamento.
Molte volte nel mio lavoro mi trovo a dover pressare la pasta di scarto nei secchi, che dopo una notte passata a fermentare straborda a leccare il pavimento. Pianto i pugni affondando nei secchi mentre il blob pastoso mi inghiotte e qualche volta capita che perda l’equilibrio, infilando completamente le braccia nel secchio e cadendoci dentro fino alle spalle, così da finire investito dai vapori alcoholici che mi bruciano le narici.
I monitor della stazione di Chinatown informavano i viaggiatori che gli Skytrain avrebbero subito un ritardo a causa di un tronco sui binari all’altezza di Commercial-Broadway. Mi sono preso il tempo di informarmi sui biglietti dell’imminente partita di hockey – fuori dalla mia portata – e mangiare dei Takoyaki al W, così da avere un posto dove scrivere il resoconto di oggi. Esco e mentre cammino sul marciapiede tra la folla sento una sensazione di calore e rassicurazione che mi fa sorridere.
Avete ragione braccia mie, è tempo di andare a casa.
Colazione: pane di segale con prosciutto cotto. Merenda al lavoro: mele e banana. Pranzo: insalata con tonno, grana, noci; salmone con pane di segale, pickles; sfoglie di patate dolci, uva, fragole.
Fortunatamente faccio un lavoro dove mi muovo molto e non è facile fermarsi abbastana da addormentarsi. Nei primi momenti di questa mattina avrei corso veramente un grosso rischio altrimenti. Negli ultimi giorni sto educando il mio corpo e la mia mente all’ascolto della sensazione di fame, che è molto cambiata da quando ho iniziato i 30GSZ ad ora. Mangio un pranzo ricostituente quando torno dal lavoro e poi fino al risveglio successivo, cioè alle 1:50, non mangio più. Vado a letto più leggero e in questi ultimi giorni evito di mangiare appena sveglio, per poi fare colazione con pane di segale e prosciutto dopo la prima infornata, quindi attorno alle 3:30/4:00, quando anche dopo un primo risveglio muscolare e aver bevuto la sensazione di fame diventa molto chiara. Prima avverto una cosiddetta falsa fame, con qualche brontolio che scompare dopo poco o dopo aver bevuto. In questo modo do il tempo al mio intestino di ripulirsi e al corpo di iniziare a grattare i propri grassi.
Considerando che dormo comunque molto poco e il mio ritmo circadiano è abbastanza sballato, mi sento davvero energico. Le cose più difficili da controllare sono le mie reazioni istintive, i miei pattern, come mangiare in seguito a un senso di frustrazione, e tarare il consumo calorico quotidiano sullo sforzo fisico, che varia ogni giorno in durata perché dipende dalla quantità di pane che devo infornare, con differenze tra un giorno e l’altro di due, tre ore. Al momento cerco quindi di mantenere il consumo di cibo costante, per monitorare il livello di affaticamento e la capacità di recupero, spendendo più tempo a riposare nel pomeriggio, dopo pasti leggeri. Il prurito, quel poco che persiste, si verifica sempre nel momento immediatamente successivo allo stacco: fatta la doccia in attesa di riposare. Se dormo anche solo un’ora nel pomeriggio sparisce.
Molte volte mi sono ritrovato ad avere fastidiose reazioni fisiche alla stanchezza. Il prurito è una di queste, ma anche il nervoso alle gambe (dopo una certa ora di sera non riuscivo più a stare seduto) e il calore. Era solo il mio corpo che mi diceva: “Vecchio, andiamo a letto”. Non solo, poi ho capito che questa sensazione si verificava soprattutto in quei momenti in cui mi annoiavo, o magari quando ero costretto a rimanere in posto e, anche se pensavo di volerci stare, in realtà non volevo. Ancora di più ora stimo il mio corpo per aver avuto in tutto questo tempo una voce così chiara.
Oggi sono andato a fare un giro con D., mi aveva proposto di andare a vedere il molo di Port Moody e poi abbiamo pranzato nel ristorante Greco di Columbia Street che è veramente buono e, stranamente per Vancouver, economico. Fuori dalla finestra, in questo preciso momento, è comparso il cagnolino bianco dei vicini. Non si vede molto movimento in quella casa. Le apparizioni del cagnolino, o del vecchio signore, o dello scoiattolo nero sono rare ma sempre molto interessanti. In questo caso il cagnolino è uscito e si è diretto dalla parte opposta del giardino, apparendo e scomparendo dietro le piante che dalla mia finestra sono come delle quinte di un teatro. E così, la star dal pelo bianco, tornata indietro dopo pochi secondi è scomparsa sul lato opposto della casa. Quattro abbaiamenti e la scena torna al consueta quiete.
Seduto in macchina non riuscivo a tenere gli occhi aperti. La stanchezza di questi quattro giorni di lavoro spingeva sulle mie palbebre come per chiudere una valigia troppo piena. Ed io, che cercavo di resistere, sentivo a momenti le mani cedere e i polsi sciogliersi, la testa ciondolare in avanti, le gambe buttate come fascine di grano maturo. Ma sono certo che se io mi fossi trovato nella stessa situazione durante il periodo in cui assumevo zucchero e cagate varie senza controllo, in quel momento avrei semplicemente dato di matto. Muovendo le gambe in continuazione e tirandomi su le maniche per grattarmi.
Ora riposo.
Colazione: pane di segale e prosciutto cotto. Merenda al lavoro: mele. Pranzo: cucina greca: costolette magre di maiale, riso, pane bianco. Merenda a casa: sfoglie di patate dolci.
Ho incontrato Christine per la prima volta a Glasgow, lunedì pomeriggio. Ci siamo dati appuntamento davanti alla statua degli amanti in partenza di Buchanan Bus Station. Come per tutta la permanenza alla fattoria, quel pomeriggio ho capito solo un terzo delle cose che mi ha detto. La mia comprensione dell’inglese parlato non era affatto buona. Nelle tre settimane successive sarei riuscito ad alzare la percentuale al 50%, anche se non è stato a causa della lingua che non ho inteso cosa volesse dire descrivendo l’accommodation come “molto spartana”.
E’ venuta a prendermi alla stazione di Dundee dopo un viaggio in autobus da Glasgow che, benché sia durato meno di due ore, con il climatizzatore rotto e parecchi gradi in più rispetto all’esterno, è sembrato interminabile. Nel centro della città ho speso circa mezz’ora nel charity shop, dove ho comprato un’ottima e pratica felpa in pile a 1,99 pounds e una camicia, che ho lasciato nel bungalow prima di ripartire.
Il bungalow è stato la mia casa per 23 giorni. Ho sistemato le mie cose a fianco di un grosso materasso gonfiabile usando la valigia come armadio e comodino. Era una casa ma una casa non ancora finita, di fatto adibita a capannone, dove nell’unica grande sala erano raccolti i sacchi di lana dell’utima tosatura (e probabilmente anche quelli delle precedenti), la pila di pannelli divisori per le future stanze e le cataste di materiale isolante, più ogni altro oggetto reputato indispensabile per la fattoria, tutto raggruppato in zone più o meno specifiche, che nei giorni seguenti ho provato a delimitare e potenziare seguendo la prima spiegazione di Christine.
La cucina era la stanza immediatamente adiacente al bungalow, quella in cui tutti entravano e dove facevamo ogni lavoro. Dormire nel bungalow significava non avere vera privacy, fare parte di un ordine diverso da quello a cui si è abituati. Questo era tanto vero quanto l’assenza di “facilities”, ossia di tutto ciò che serve alla normale cura dell’igiene e all’espletamento dei propri bisogni. Non c’era acqua corrente, fatta eccezione per la rigida manichetta collegata al pozzetto sotterraneo, che usavamo per riempire un grosso bidone per l’immondizia riadattato a riserva idrica per doccia, abbeveratoi delle pecore e lavaggi vari. Non c’era il bagno, ma un water appoggiato alla balaustra dell’entrata laterale del bungalow, collegato da Christine e William, pochi giorni prima del mio arrivo, allo scarico nella fossa biologica. Dopo averlo usato occorreva tirare lo sciacquone rimpiendo un secchio dal bidone/riserva e scaricarlo dolcemente nel water, al fine di prevenire la rottura delle incollature di silicone tra le buste di plastica utilizzate per sigillare il tubo di scarico.
Ma soprattutto non c’era la doccia. Ed io mi sono sempre sentito poco a mio agio nell’andare a letto non lavato. O meglio, la doccia c’era: bastava riempire un secchio, o più d’uno, e quindi lavarsi. William lo faceva tutte le mattine. Quasi tutte. Oppure rimpire una doccia da campeggio e lasciarla al sole tutto il giorno, così da averla calda in prima serata. O utilizzare il bollitore per avere una razione di acqua calda da usare nel secchio. Come per ogni altro compito alla fattoria, inventare poteva essere la vera rispsta per ogni problema. Ho risolto la cosa evitando di farmi la doccia, avevo troppo freddo. Anche con il sole il vento non cessava mai e la temperatura non è mai salita oltre i venti gradi. Di notte si battevano i denti. Così ho comprato due pacchetti di salviette umidificate al Tesco di St. Andrews alla prima occasione e la sera, quando rimanevo da solo nel bungalow, le usavo per strofinarmi tutto il corpo. La cosa stupefacente è stata che nei giorni seguenti la doccia ha smesso di essere un problema. Stranamente, per la strana dieta che seguivo alla fattoria, il mio corpo reagiva bene e sembrava che anche lavarmi di meno avesse un effetto benefico sulla mia dermatite. Io stesso sono stato sorpreso di quello che ha significato per me vivere alla fattoria di Christine: mangiavo solamente alimenti ai quali, un mese prima, avevo scoperto di essere intollerante, dopo un esame fatto per disperazione, quando per mesi avevo scorticato braccia a gambe e anche la faccia stava assumendo tratti d’asfalto. Pancakes, uova, pasta, sciroppo di zucchero, pane, latte, marmellata. Certamente non mancavano carne e vedura, ma ho iniziato a stare meglio. Mi lavavo una volta sola a settimana, quando nel mio giorno libero andavo in città e mi facevo una nuotata in piscina. Eppure, usando anche una minima quantità di pomata Protopic, la pelle guariva. Avrei avuto la prima, fondamentale occasione di comprendere cosa mi stava succedendo.
Ricordo Christine accompagnarmi attorno al bungalow mentre ripensavo a quando mi ripeteva che la fattoria era un posto molto spartano. La guardavo ed era come se nascondesse un certo imbarazzo nel suo non-detto, come se le parole che usava non fossero quelle che entrambi avevamo bisogno di dire e sentire in quel momento; rigidamente si trincerava dietro l’immagine forte che sapeva dare di sé. Come usava di solito, descriveva il bagno e la doccia in modo scherzoso, con il piglio di chi vuole vendere qualcosa spacciandolo meglio di quello che è, ma senza essere capace di raccontare bugie.
William mi ha chiesto se avevo visto le “facilities” e avevo risposto di sì. Allora mi ha raccontato di come vedeva lui il lavoro da Christine e poi siamo andati in giro per la fattoria. Camminavamo in mezzo al cimitero di automobili come riverenti visitatori di un museo. Mi spiegava la routine delle cure mattutine agli animali, me li presentava e mentre portavamo a spasso Tika parlavamo della fattoria e dell’impatto che ha esercitato su di noi al momento dei nostri rispettivi arrivi. Ne avremmo parlato ancora, in modi uguali ma diversi a seconda dei nuovi volontari arrivati. E ne avremmo riso e immancabilmente rivalutato l’intrinseco valore, confrontando quelle briciole di apparenza con l’interminabile bellezza di ciò che ci circondava, sopra e sotto l’orizzonte, delle pecore e dei cavalli, dell’accarezzare le galline, dei momenti insieme attorno al tavolo, del liberarsi invece che del possedere.
Tuttavia, la prima sera non immaginavo nulla di tutto questo. Rimasto solo nel bungalow, cercavo di non guardare direttamente il grosso faro di accecante luce gialla accanto al letto. Mi sono chiesto che cosa diavolo stessi facendo lì, ragionando sul momento migliore per andarmene. Chiuso nel sacco a pelo cercavo di capire se la polvere mi avrebbe fatto passare una notte d’inferno e per due volte il mio cuore ha straripato quando mi sono sentito camminare addosso degli insetti, cieco. E il freddo. La prima notte ho dormito molto poco a causa del freddo. Il sacco a pelo che avevo comprato in vista del periodo alla riserva non teneva abbastanza caldo e non riuscendo ad addormentarmi sono uscito nel nero scozzese per fare pipì, andando il meno lontano possibile dalla porta. Non posso dire da dove e da cosa fossero provocati tutti i rumori a cui davo bado una volta disteso, nel buio del bungalow alle mie spalle. I belati delle pecore oltre i muri erano vividi come se quei muri non ci fossero e il vento pareva del tutto intenzionato a sradicare via il tetto che mi proteggeva.
La decisione di rimanere era in bilico tra la voglia di sfida e la fede verso i signficati che ogni esperienza sapevo che potesse portare. Questa fede assomigliava a una piccola luce in fondo a un tunnel del quale non conoscevo la lunghezza. Ma alle prime luci del giorno seguente ho voluto rimanere. Per uno strano cocktail di sensazioni, ben shakerato dentro di me, il sapore che aveva il desiderio di vedermi da lì a tre settimane ha prevalso su tutto il resto. Un sapore di scoperta, di fiducia, di essenza. E di timore. Una poco confortevole sensazione di sicurezza contrapposta ad una insensata voglia di disequilibrio. Un funambolo sulla corda tesa sopra a un burrone che diventa improvvisamente curioso verso ciò che sta in basso. Il secondo giorno mi sono svegliato alle 8:00 infilandomi subito la felpa di pile, le calze di lana, gli scarponi. Sono uscito e una pesante nebbia aveva cancellato ogni cosa nel raggio di venti metri. Nessun altro attorno. Le pecore mi guardavano e pioveva.
Mi è veramente dispiaciuto mancare l’appuntamento di riepilogo della giornata di ieri, ma certe volte è tempo di vivere e il resto viene dopo.
D. mi aveva invitato a una cena dalla sua amica C., nella casa di New Westminster, ed io ho accettato subito con estremo piacere. Finora ho sempre limitato molto le uscite serali perché sapevo esattamente come sarebbe stato dormire due, tre ore massimo prima del turno al forno. Ma ne valeva la maledetta pena. Ero abbastanza stufo di rimanere in casa in stato larvale tutte le sere.
E’ una stata una serata squisita nella quale ho conosciuto i ragazzi e le ragazze giapponesi ospiti di C. in Canada per studio. Anche solo girare in macchina per Vancouver parlando con D. è stato molto bello e rilassante, così diverso dalla routine delle ultime settimane. Anche perché passare del tempo con persone di una cultura ancora così diversa ma in qualche modo sempre conosciuta (mi piace molto il Giappone) ha generato tantissimi spunti e motivi d’interesse. Durante il ritorno, verso le 22:30, facevo fatica a tenere gli occhi aperti, è stata una giornata intensa.
Il turno del martedì al forno è sempre il più corto, per le 10:00, massimo 11:00 sono a casa e, cosa più importante, ieri c’era il sole. Dopo una decina di giorni di nuvole e pioggia è stato come vederlo per la prima volta, come sentire le pile dell’anima ricaricarsi e avere un motivo per sorridere. Così ho fatto! Ho sorriso tantissimo e sono andato a correre, salendo la Marmont Street e puntando a raggiungere il Centro Sportivo di Poirier Street. A mano a mano che salivo, il Fraser a sud si liberava dei palazzi e potevo scorgerne le anse quadrettate dalle zattere di tronchi, parcheggiati a pochi metri dalla riva del Surrey come ombre su uno specchio. Mi sembrava di reggere una videocamera mentre correndo scorrevo con gli occhi sulle case lungo le vie, sui giardini decorati di lapidi e ossa, zucche e festoni. Non ero abituato a vivere Halloween così seriamente. Ma mi piaceva anche solo salire, come ogni volta che ho cercato una montagna, un punto elevato di città, una collina, seguendo quella voce che mi chiamava in alto, per starmene sulla cima di qualcosa e guardare dritto davanti a me, aspettare il sole, respirare.
I buddhisti hanno dei canoni nella ricerca dei luoghi migliori per la meditazione. Luoghi elevati di montagna affacciati su una valle, possibilmente dove scorre un fiume. Sono considerati catalizzanti, adatti ad armonizzare i flussi energetici, utili a convogliare gli spiriti e le frequenze. La collina di Coquitlam sembra proprio rispettare questi canoni e anche se è completamente tappezzata di cemento e automobili la voce della terra è ancora forte.
Dopo un giro di circa sei chilometri mi era venuta decisamente fame, così a casa mi sono dedicato alla preparazione di un’insalata alla quale ho aggiunto acciughe, olive e olio. Mentre nella miglior padella antiaderente che abbia mai usato – perché questa casa ha veramente tanti difetti ma una padella così buona io non l’ho mai vista – ho cotto uno stupendo trancio di salmone canadese, che ha assunto due guance d’oro così “croustillant” (abbondate con la R francese) da sposare eternamente l’interno burroso che in bocca si scioglieva.. mio dio sto salivando. Inoltre al Superstore ho trovato anche un compìto barattolo di pickles, i cetrioli sottaceto, perfetti da sgranocchiare per interrompere la maestosa marcia del salmone con un’acidula nota di freschezza. Il mio dessert era uva fresca e fragole. Da tempo non mi sentivo così leggero ma contemporaneamente appagato.
Le tre ore successive sono passate in leggiadria, tra qualche episodio di Rake, serie australiana sulle avventure dell’avvocato Cleaver Greene – divertente anche solo per la pronuncia degli australiani – e i compiti di calcolo delle percentuali di ingredienti degli impasti per le ricette del pane.
La mattina di oggi al lavoro è stata dura, ma mi aspettavo peggio, per cui ho concluso egregiamente un’altra giornata in trincea, abbastanza sddisfato del pane cotto ma sempre desideroso di migliorare il risultato. Penso che, benché non fosse la prima occupazione che immaginassi nel campo della panificazione, potermi dedicare in modo così massivo ad un singolo aspetto del ciclo produttivo sia una grandissima fortuna. Come il giovane Daniel in Karate Kid, al quale il mantra di “metti la cera, toglia la cera” è subito sembrato noioso ed inutile, così è stato per me il dover infornare e sfornare palle di impasto come se non vi fosse altra priorità né significato nella vita. Ma esattamente come nel film, si è rivelato la base di una comprensione più ampia e dell’acquisizione di una tecnica più approfondita. Non solo: ogni giorno diventa più interessante nella conoscenza delle variabili che influiscono sulla fermentazione dell’impasto e sulle possibilità che io ho di incidere – anche letteralmente – sulla buona riuscita del prodotto. Cosa che fino a qualche tempo fa mi avrebbe solamente spappolato il cervello. La ripetizione intendo. Ma qui è diverso, è qualcosa di completamente nuovo, potente, rigenerante pur essendo molto duro fisicamente.
La prova fisica è un altro degli aspetti che considero nel monitoraggio della dermatite. Lo stress, che non è solamente mentale, si rispecchia anch’esso nel prurito. Il mio corpo ha sempre parlato in modo chiaro, ma io solo in questi ultimi tempi ho iniziato ad acquisire il modo di poterlo ascoltare. Dopo la giornata di ieri e durante la prima parte di mattina le braccia prudevano. Quest’oggi, dopo una dormita pomeridiana rigenerante, sembra essere tutto tornato sotto controllo.
Colazione: pane di segale con prosciutto cotto. Merenda al lavoro: mele. Pranzo: insalata con accighe, olive e noci. Wrap di yogurt greco, salmone affumicato e noci; cetriolini, sfoglie di patate dolci; uva e fragole.
La scorsa notte ho fatto un po’ fatica a dormire. Verso le undici, quando ero già a letto da tre ore, ho sentito il netto “stack!” della trappola per topi che risiede paziente e letale vicino al bidone dell’umido. Qualcuno è andato a smuovere la situazione dopo un po’. Quando mi sono alzato la trappola era lì, come se nulla fosse successo. Così non riesco a dire se si sia fatta ancora una volta portatrice di morte oppure no.
Da quel momento non ho più veramente dormito. Ero quasi ansioso di svegliarmi e uscire. Il riscaldamento mi ha innervosito e sono uscito prima del solito. Non so se sia l’alimentazione, ma mi sono sentito più energico oggi, finendo un turno da undici ore e uscendone leggero, come non era mai successo fino a ora.
La via del ritorno era storta, come arrivato al primo incrocio e guardando le macchine mi percepivo su un asse rotato del mondo. E fermo sullo spartitraffico della Lougheed Highway, sotto l’ombrello nella pioggia incessante, le macchine ad un tratto sono mutate in un flusso, in un tutt’uno sempre meno frastornante, ed io me ne allontanavo rimanendo immobile, finendo in uno stato di profonda armonia nel quale mi percepivo oltre, distaccato, in un incanto istantaneo al di fuori del tempo.
Entravo in Mackin Park da sud-est attraverso il gate sorvegliato dai due “gathering salmons” colorati e uno squadra di gabbiani occupava il diamante banchettando sulla moquette d’erba rasata. Negli esatti punti dove mi sarei aspettato di trovare gli scoiattoli giacevano bicchieri di caffè, riversi tra le foglie cadute come scivolati da mani esauste. Tutte le acque, tutti i rivoli ai bordi delle strade, tutti i rii che scorrono tra le case rinchiusi nei loro argini di cemento correvano in una sola direzione, come un coro anonimo organizzato, una rivoluzione timida, scioglievano la collina sinuosi, ma io andavo nella direzione opposta.
Penso a volte a quel topo superstite. Dev’essere particolarmente temprato da questo tempo di magra, nel quale le scatole di plastica che abbiamo adottato rendono difficile reperire cibo. Ma penso che sia un tipo tosto, “tough” direbbero qui, che la sa fare in barba alla trappola. E non vorrei che ci finisse dentro, vorrei che sapesse sempre evitare marchingegni distruttori come quello. Perché trovo meraviglioso che riesca a non cadere in trappola, che forse, in un bagliore di genialità e intuizione, sia riuscito a capire come eludere il pericolo; che magari abbia imparato che tutte le cose fatte a ciabatta, con un ferro teso vibrante e un invitante odore di buono non vanno bene. Mi sento quasi entusiasta nel sapere che quella creatura ha, nella sua semplice ed essenziale dimensione, acquisito una naturale saggezza ha, nel suo modo unico e coraggioso, maturato una forma di discernimento.
E’ inutile, faccio il tifo per il topo.
Peccato che quando oggi mi sia portato a casa un panino integrale non ci fosse attaccata una trappola gigante. L’ho mangiato tutto, avevo veramente fame. Ed ora le mie braccia hanno qualcosa da ridire a proposito. Le ascolto attentamente, analizzando le loro argomentazioni e, posso dire con sicurezza, che hanno ragione. Inutile nascondersi, se devo dare retta a qualcuno ora sono proprio loro.
Colazione: pane di segale con prosciutto. Merenda: mele. Pranzo: insalata di cetrioli con pomodorini, pollo, olive; pane integrale con pomodori secchi; focaccia autoprodotta.